Lo strano caso dei morti Covid – Atto II

Riprendiamo il discorso circa la mortalità connessa a Covid19. I decessi imputati ufficialmente a questa nuova malattia sono numerosi, oggi in Italia circa 170.000. Ad una analisi più attenta, pare chiaro che la gran parte delle persone ufficialmente decedute con Covid non abbiano visto ridurre la propria aspettativa di vita complessiva rispetto al periodo precedente la pandemia. Le elucubrazioni polemiche circa la differenza tra i “morti di Covid” ed i “morti con Covid”, alla luce di questi dati, sembrano abbastanza fondate: lo stesso ISS rileva la prevalenza di persone affette da tante altre patologie. E’ logico che in molti casi Covid non abbia fatto differenza – ma questo si potrebbe dire anche per qualsiasi malattia stagionale. Ulteriore problema: è impossibile decidere in senso deterministico chi, nel complesso dei casi, sia stato realmente danneggiato dalla malattia e chi no. Possiamo trovare il caso di novantenni che avrebbero potuto vivere ancora, e si sono fermati prima a causa della pandemia; e potremmo anche trovare il caso di trentenni che, formalmente deceduti positivi alla nuova infezione, erano in realtà affetti da patologie mortali che non li avrebbero lasciati vivere un giorno di più in nessun caso. In senso numerico, può essere utile cercare di isolare un gruppo di persone che non hanno visto ridurre la durata della propria vita da quanti invece ci hanno rimesso parecchi anni; il risultato ottenuto in fondo descrive una situazione concorde con l’analisi dell’effetto delle patologie concomitanti proposta da ISS. Ma non è l’unico né forse il migliore approccio per dare conto della gravità del fenomeno.

Volendo ragionare in modo diverso, come potremmo definire il danno reale causato da un “decesso Covid”? Un morto è un morto, non ci piove, ma i morti sono tutti uguali? In realtà no: la dipartita di un ventenne è un evento molto diverso da quella di un centenario. In gergo, quando si ragiona sul danno causato da una patologia potenzialmente letale si parla di cose come “anni di vita persi”, o “anni di vita in salute persi” L’idea di base è che il danno, volendo supporre anche omogenee le condizioni di vita al variare dell’età, sia più grave con la perdita di un giovane che non di un anziano. Capisco bene le perplessità: non esiste un numero di anziani a cui allungare la vita che giustifichi l’uccisione di un solo bambino. L’etica ha il suo valore, certo, ma non descrive il problema: per una semplice descrizione numerica, attribuiremo ad ogni anno di vita il medesimo valore. Il giovane deceduto avrà perso molti più anni di vita rispetto all’anziano, in tal modo dando conto della gravità dell’accaduto. Il riferimento da cui partire è al solito la speranza di vita ante pandemia: vista la vicinanza temporale e la relativa stabilità, il valore di 82,756 anni rilevato nel quinquennio 2015 – 2019 rimane un buon parametro, peraltro non ancora superato. Si tratta, apparentemente, della aspettativa di vita più elevata spuntata finora dagli italiani; questo permette di rendere cautelative le considerazioni conseguenti: è sempre bene evitare l’accusa di aver nascosto qualche morto.

Età al decesso per i positivi a Covid19, mediana. Grafica: INFN / ISS.

Per stimare le perdite di anni di vita rispetto alle attese ante Covid, occorre conoscere in modo puntuale due parametri: il numero di decessi attribuiti alla nuova malattia, e l’età media delle persone così decedute. Il numero di decessi è un problema modesto, visto che viene sbandierato ovunque. Le età dei deceduti sono una faccenda diversa: di solito non se ne parla, oppure sono riferite in maniera aneddotica dalla stampa locale. Ci soccorre ancora una volta la restituzione numerica e grafica di INFN, sempre basata su dati ISS, da cui deriva la prima immagine in alto; i dati di base utilizzati in questa sede sono aggiornati al 12/07/2022. Evidenti le oscillazioni del parametro. A marzo ed aprile 2020 età al decesso basse, quindi rapida risalita. L’estate 2020 mostra valori instabili: ovvio, essendo pochi i decessi registrati la varianza è alta. Alla fine dell’inverno, nel 2021, si registra uno sprofondamento che spinge le età al decesso ad oscillare attorno ai 75 anni: davvero basse. La successiva risalita, pur con deviazioni abbastanza evidenti, riporta le età registrate stabilmente al di sopra degli 80 anni. L’impatto sulla speranza di vita, tenendo conto anche del numero di persone decedute, sembra quindi essere stato particolarmente forte durante le primavere del 2020 e del 2021. Combiniamo ora i dati, mettendo assieme età al decesso e numero di decessi: per ogni giornata è possibile definire la differenza tra la speranza di vita ragionevolmente attesa – quella ante pandemia – e l’età effettivamente raggiunta dalle singole persone decedute con Covid19. Il prodotto di questa differenza con il numero di deceduti fornisce un valore in anni, anni di vita persi totali: questo è il danno in termini di mortalità causato dalla malattia, ogni giorno. Non è detto che sia un danno: se il morto Covid vive più a lungo delle attese, allora parliamo di un guadagno e ci troveremo un segno negativo nei grafici.

Età al decesso per i positivi a Covid19, anni vita persi per giornata. Dati: INFN / ISS.

Nella seconda immagine in alto possiamo confrontare mediana delle età al decesso Covid e anni di vita persi, intesi come dati giornalieri, assieme alle relative medie a 15 giorni. Perché aggiungere una media? Se ci affidiamo ai valori puntuali, notiamo subito deviazioni forti nei grafici. Può essere che in una data giornata i deceduti Covid siano tutti molto anziani, o molto giovani: questo è frutto del caso. L’impatto in termini di anni di vita persi può essere realistico solo se mediato su un buon numero di valori. Che dire degli andamenti nel secondo grafico? La narrazione della pandemia offerta dai media è forse poco accurata. L’impatto in termini di anni di vita persi è significativo nel periodo marzo – aprile 2020; dopo il 20 aprile 2020 si sprofonda in territorio negativo: Covid19 fornisce un guadagno di aspettativa di vita, anziché una riduzione. La malattia rimane irrilevante fino al periodo compreso tra metà ottobre e metà dicembre, laddove torna a fare danni; l’effetto è modesto, ma visibile. Nel 2021 le cose si mettono molto male: il danno in anni di vita persi cresce rapidamente fino a toccare l’apice a fine aprile. La discesa delle età medie al decesso, combinata col crescere del numero delle vittime, produce effetti forse perfino peggiori di quelli osservati nel 2020. Successivamente si registrano due ultime recrudescenze – di portata limitata – a fine agosto 2021 e a gennaio 2022. Poi il nulla più totale: a partire dai primi giorni di febbraio, il parametro anni di vita persi rimane in media sempre in territorio negativo, al più neutro. Da quasi sei mesi, non esistono di fatto decessi realmente imputabili a Covid19. Abbiamo un termine di paragone per valutare il danno? In Italia nel 2019 gli incidenti stradali hanno causato 3173 vittime [ISTAT]; gli incidenti sul lavoro 1156 vittime [INAIL], di cui 470 (254 in itinere e 216 in occasione di lavoro) coincidenti con incidenti stradali. Sommando: 3173 + 1156 – 470 = 3859. Se ogni vittima ci ha rimesso, ragionevolmente, metà della vita, il danno è (3859 X 82,756) / (2 X 365) = 437,5. Ogni giorno, questi incidenti divorano quasi 440 anni vita. Ogni santo giorno. Teniamolo a mente.

Numero di deceduti positivi a Covid19, anni vita persi per giornata. Dati: INFN / ISS.

Un ulteriore possibile raffronto, questo davvero molto imbarazzante, è tra anni di vita persi e numero ufficiale di decessi Covid – sempre dati INFN / ISS. Questo confronto, nella terza immagine, basta da solo a far capire che qualcosa non va nella narrazione mediatica a cui siamo esposti. Al telegiornale sentiamo parlare di “situazione critica” per 800 – 900 morti Covid in una giornata. E questo è vero a marzo / aprile 2020. A novembre 2020, con lo stesso numero di vittime giornaliere, l’impatto reale in termini di anni di vita persi è minimo: ma per il telegiornale i due eventi sono equivalenti. Si scende ad un plateau di 400 – 500 morti al giorno a gennaio 2021: in realtà si tratta un equivoco, essendo nullo il numero di anni vita persi nel periodo. I decessi totali scendono quindi a 300 per giornata a febbraio; altro equivoco: in realtà in questo istante le età al decesso prendono improvvisamente ad abbassarsi, e si innesca la rovinosa crescita in anni vita persi che culminerà ad aprile 2021. Il numero di decessi positivi al tampone puro e semplice pare un parametro davvero poco rilevante: vede situazioni drammatiche laddove non sta accadendo nulla, e maschera disastri come fossero periodi di tregua. Bizzarri gli eventi di fine 2021: i decessi totali si impennano fino a 300/400 al giorno; ma in realtà gli anni vita persi stanno già crollando. Con la fine di gennaio 2022, secondo il telegiornale raggiungiamo un picco minore di decessi; nel mondo reale, in quei giorni Covid19 perde ogni capacità di accorciare la vita ai malati – divenendo dunque malattia rigidamente non mortale. Ma le redazioni dei nostri telegiornali non se ne sono accorte, purtroppo.

Vale ora la pena puntualizzare alcune questioni. La base del discorso è la definizione di malattia mortale: una malattia mortale ti accorcia la vita. Se non ci riesce, allora non è mortale. Chi non riesce a comprendere queste ovvietà aritmetiche farebbe bene a disinteressarsi dell’argomento, per non fare danni. La scelta della speranza di vita attesa condiziona i risultati: chiunque potrebbe proiettare linearmente gli andamenti noti e raccontare che, in assenza di Covid, a quest’ora avremmo vissuto 85 anni e non 82. Gonfiando subito il parametro anni vita persi a proprio comodo. Per rispondere a queste persone, disoneste, basterebbe chiedere loro come mai ad oggi il “morto Covid” manifesti una speranza di vita leggermente superiore ai morti “non Covid”, e goderci la risposta. Il valore delle medie: come detto, affidandoci ai valori di giornata finiremmo col vedere giornate di danno grave – perdita di anni vita – e giornate di guadagno. Facile speculare sulle prime, o al contrario sulle seconde, ma queste sono deviazioni casuali. Solo una tendenza di medio termine può fornire informazioni sensate. Le età al decesso: INFN fornisce mediane, non medie. Visto l’andamento a campana, piuttosto regolare, esposto sul sito, possiamo supporre che non differiscano granché da un valore medio. I più maliziosi tra i lettori avranno già intuito l’effetto della scelta della mediana in luogo delle mera media aritmetica. Le tempistiche: a volte l’apice nel numero di decessi coincide con l’apice del parametro anni vita persi, a volte lo precede; a volte addirittura è successivo. Evidentemente i decessi puri e semplici non offrono una raffigurazione accurata dell’impatto della pandemia. Il confronto con gli incidenti: ogni giorno, perdiamo 400 o 450 anni vita tra strade e lavoro. Se nessuno ci chiude in casa per questo, perché è lecito bloccare il Paese quando Covid19 arreca un danno comparabile? Vai a sapere. Da ultimo, l’incompletezza dei dati: mancano dal quadro molte informazioni rilevanti – il motivo per cui non riusciamo a liberarci di questa ossessione. Occorrerà ancora tempo per rinsavire.

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Lo strano caso dei morti Covid – Atto I

Dopo tanto tempo, e tante discussioni, è giunta forse l’ora di osservare in retrospettiva il fenomeno “pandemia”. Nella confusione del momento, nella percezione di emergenza portata dalla novità dell’evento, è possibile raccontare e credere praticamente qualsiasi cosa. La lentezza, talora esasperante, con cui i servizi statistici italiani mettono a disposizione dati ed elaborazioni non può che aggravare il problema: in assenza di metriche affidabili ed aggiornate, chiunque potrebbe decidere di fare o far credere qualunque cosa. Come potrebbe mai essere contestato? Un dato che giunge in ritardo, se operiamo provvedimenti emergenziali, è praticamente equivalente ad un dato contraffatto o mancante; indurrà decisioni basate su evidenze superate o inesistenti, che ben difficilmente potranno rivelarsi oculate. Siamo attorno alla metà dell’anno 2022, un lasso di tempo sufficiente per pretendere un minimo di chiarezza a livello statistico. E allora domandiamoci chi sono davvero e quali caratteristiche hanno i morti Covid. Sono giovani o vecchi? Sono sani o soffrono di altre patologie? Quanti anni di vita hanno perduto a causa di Covid19? Mi è capitato di toccare questo argomento a più riprese: usualmente siamo portati a pensare che il morto Covid sia un parametro più affidabile rispetto a contagi o ricoveri. Un morto è un morto, non lo nascondi. Ma come facciamo a dire che una persona è deceduta per Covid19? Quali sono i criteri utilizzabili?

Al cuore della questione: cos’è una malattia mortale? Come la identifichiamo? Una malattia mortale è una malattia che causa la morte di chi la contrae, direbbero al bar dello sport. Certo, ma allora se ho prurito alla schiena e muoio, sono morto di prurito? Non è che per caso qualche altra patologia potrebbe nascondersi dietro al prurito? E con l’età come la mettiamo? Ad una certa età tutti noi moriamo. Non è fondamentale né sempre fattibile individuare una specifica patologia come causa del decesso: la mera vecchiaia, con il suo corollario di perdita di funzionalità e degrado progressivo, ci porterà comunque via prima o poi. Proviamo ad attenerci a parametri semplici e verificabili: una malattia mortale è una malattia che riduce la mia aspettativa di vita. Senza questa malattia, avrei potuto vivere qualche anno ancora: per il fatto di averla contratta sono morto un po prima. Esistono vari metodi per verificare se una patologia uccide o no: possiamo confrontare gruppi di persone che la contraggono o che ne sono immuni, e vedere se le aspettative di vita sono diverse o meno. E’ abbastanza ovvio rilevare che chi si ammala di tumore muore in media prima di chi non è incappato in questa pericolosa malattia. Se la patologia del caso si è materializzata da un certo istante di tempo in poi, si può confrontare l’aspettativa di vita della popolazione prima e dopo la sua comparsa: se è mortale, ancora un volta l’aspettativa di vita ne sarà diminuita, altrimenti nulla cambierà. E allora proviamo ad eseguire una verifica banale: vediamo a che età se ne vanno le persone ufficialmente decedute con Covid, e verifichiamo se queste persone abbiano vissuto di meno rispetto a chi non ha incontrato la malattia.

Speranza di vita in Italia, variazioni annue. Fonte: ISTAT.

Il primo esercizio aritmetico è ovviamente verificare come si sia evoluta l’aspettativa di vita negli ultimi anni. Il parametro non è stazionario: in Italia invecchiamo, e in media viviamo più a lungo rispetto ai nostri antenati. Il nostro ISTAT fornisce le serie dati del caso, liberamente consultabili nella sezione delle Tavole di Mortalità. Di mortalità si parla: non possiamo sapere oggi quanto vivranno in media i ragazzini che hanno oggi 10 anni di età; quel che possiamo sapere è a quale età si muore oggi. La cosiddetta “speranza di vita”, così come definita abitualmente, è basata sull’assunzione secondo cui una persona che nasce oggi vivrà in media all’incirca un numero di anni pari all’età al decesso che si registra oggi. Divinare il futuro è difficile: per correttezza ci limitiamo a divinare il presente. Il dato: in Italia la speranza di vita alla nascita è cresciuta nell’ultimo trentennio. Nel 1992 in media, mettendo assieme maschi e femmine, potevamo vivere fino a poco più di 77 anni. Nel 2021, dopo il passaggio della “pandemia Covid”, viviamo comunque ben più di 82 anni. La riduzione innescatasi nel 2020 è evidente: 82 anni circa, più o meno come nel 2012. Osserviamo per un momento anche le variazioni percentuali: le tendenze di crescita più evidenti si sono registrate, in media, negli anni ‘90 e fino al 2005; successivamente sono state più modeste. Dopo il 2013 la speranza di vita media in Italia cresce sì, ma in maniera molto più debole ed irregolare. In assenza di incidenti di percorso, forse avremmo potuto assistere ad una sorta di stasi nel fenomeno, un appiattimento.

Numero di decessi Covid19 per età. Grafica: INFN.

E quindi i morti Covid? A che età si muore con questa nuova malattia? Per questo dato, suggerisco l’utilizzo delle elaborazioni statistiche e grafiche targate INFN; sono basate comunque sulle serie dati di ISS, ma oggettivamente sono più complete ed esaustive di molto altro materiale in circolazione. La seconda immagine è presa a prestito direttamente da INFN. Commenti utili? Parliamo di persone anziane, a dominare il panorama sono i decessi di settantenni ed ottantenni. Esistono anche morti più giovani, ma sono pochi; al di sotto dei 40 o 45 anni parliamo di mosche bianche. In media, mettendo assieme maschi e femmine, l’età al decesso per il morto positivo a Covid risulta complessivamente pari a circa 80,79 anni. Spostata in alto per le donne, rispetto agli uomini, semplicemente perché le prime sono di base più longeve anche in assenza di pandemie. Visto che le analisi sugli effetti di Covid19 sono state spesso basate sul confronto con il quinquennio precedente, 2015 – 2019, e visto che in quel lustro la speranza di vita pareva divenire relativamente più stabile, tentiamo ancora il medesimo confronto. Nell’intervallo di tempo ‘15 – ‘19 la speranza di vita era pari in media a 82,76 anni. Una perdita complessiva di due anni circa, oggettivamente visibile e già discussa da queste parti, imputabile a Covid19. Problema: per le persone che sono morte a 85, o magari 90 o più anni con Covid, come possiamo parlare di riduzione dell’aspettativa di vita? In un Paese nel quale puoi sperare in media di vivere 82 – 83 anni, cosa hai perso morendo ad 87 anni? Forse le cose stanno in maniera un po diversa da come ce le raccontiamo: abbiamo mescolato situazioni differenti senza riguardo. Torniamo a considerare il concetto fondamentale: una malattia mortale è una malattia che riduce la mia aspettativa di vita. Se ho contratto questa malattia, e sono riuscito a vivere quanto o più che in assenza di essa, per me quella malattia si può definire in molti modi ma di certo non è stata mortale.

Basandoci su questo assunto ovvio e semplice, tentiamo ora un simpatico esercizio: prendendo a base la distribuzione delle età al decesso dei “morti Covid” fornita da INFN, e partendo dalle età più avanzate, proviamo a dividere questi decessi in due categorie. Alla cima, le età più elevate, avremo raggruppato le persone che hanno spuntato una età al decesso in media equivalente agli 82,76 anni tipici del periodo pre pandemia; alla base, al di sotto di una certa classe di età, avremo invece raggruppato persone decedute in anticipo rispetto alla media pre pandemia. E’ un esercizio semplice, che chiunque può eseguire con un foglio di calcolo. Risultato: il discrimine tra i due gruppi si posiziona a 62 o 63 anni compiuti. Tutti i deceduti Covid che hanno età uguale o maggiore a questa, manifestano in media una età al decesso equivalente agli 82,76 anni rilevati prima dell’arrivo della pandemia. Per questo gruppo di persone, la pandemia non ha modificato l’aspettativa di vita. Sui 161.200 casi segnalati al 10 maggio 2022, stiamo parlando di circa 149.671 – 150.945 persone. Come dite? Quelli che sono morti a 65 anni ci hanno rimesso parecchio? Attenzione, la speranza di vita media si compone sempre di persone che vivono oltre la media e di persone che invece si fermano prima. Era così anche nel 2014, ed è vero per qualsiasi patologia – semplice vecchiaia inclusa. La media è il riferimento più ragionevole che possiamo avere. Se la usavamo nel 2010, la dobbiamo usare anche nel 2022. Tolte le persone che non hanno in media visto ridurre la propria aspettativa di vita, cosa rimane nel gruppo dei “morti Covid”? Al di sotto dei 62 o 63 anni compiuti, circa 10.255 – 11.529 persone. Per queste persone, incontrare Covid19 non è stato apparentemente un buon affare: hanno potuto vivere in media grossomodo 54,2 – 55,1 anni. Queste sono le persone che, basandoci su mere considerazioni aritmetiche, hanno visto effettivamente ridurre la propria speranza di vita a causa della pandemia: il 6,4 – 7,2 % del totale dei morti Covid rilevati ufficialmente.

Comorbilità comuni nei pazienti deceduti positivi a Covid. Grafica: ISS.

Potrebbe valere anche la pena fare qualche considerazione circa le caratteristiche dei pazienti. Hanno contratto Covid19, semplicemente perché positivi ad un test o magari perché manifestano sintomi credibili. Ma forse, in specie tra i deceduti, sopportavano anche altre patologie rilevanti. Una possibile fonte di notizie al riguardo è il nostro ISS, con il rapporto Characteristics of COVID-19 patients dying in Italy, da cui è derivata la tabella della terza immagine sopra esposta. Questo è il documento che ha infiammato le polemiche degli ultimi mesi: ad una indagine accurata, si scopre che la gran maggioranza dei “morti Covid” è probabilmente morta di qualcos’altro. Tra le persone incluse nel campione di indagine, appena il 2,9% non aveva alcuna patologia grave concomitante. L’85,7% dei “morti Covid” soffriva di due o tre o anche più di tre comorbilità gravi. I “morti Covid” per i quali Covid19 pare essere causa esclusiva di morte sarebbero quindi appena 4.675 dei 161.200 totali; in prevalenza giovani. Forse è un approccio troppo severo? Immaginando anche di sommare i casi di persone con nessuna o una sola comorbilità, staremmo parlando quindi di 4.675 – 22.890 casi. Sempre pochi, e comunque in ordine di grandezza vicini ai 10.255 – 11.529 stimati ragionando sulla mera riduzione della speranza di vita. Covid19 è una malattia che ha fatto delle vittime, ma i numeri non sono quelli sbandierati dai telegiornali: se a morire sono novantenni, non è possibile parlare di riduzione della speranza di vita – e dunque nemmeno di malattia mortale. I ragionamenti circa le patologie concomitanti suggeriscono conclusioni analoghe: le persone che hanno effettivamente subito un danno misurabile in termini di aspettativa di vita sono relativamente poche, anche se non facilmente individuabili; di sicuro non parliamo di 160.000 vittime. Covid19, come al solito, si rivela essere qualcosa di molto diverso dalla narrazione che ne facciamo.

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Inflazione? Colpa di Greta! O di Putin? O forse no…

Avete sentito? C’è l’inflazione. I prezzi corrono da mesi: energia, semilavorati, derrate alimentari, tutto costa di più. Tra gli energetici potremmo osservare il petrolio Brent: dopo il crollo primaverile innescato dalle misure legate alla “pandemia”, tra giugno ed ottobre 2020 si è mantenuto stabile attorno ai 40 – 45 $/bbl. A partire da novembre 2020 inizia la corsa ai rialzi, che non si capisce bene se si stia concludendo o meno: abbiamo superato anche i 120 $/bbl; al momento siamo di nuovo attorno ai 105 – 110 $/bbl. In realtà ogni cosa costa di più, oggi: l’indice FAO Food Price Index è un altro caso importante. Nel complesso, prezzi ai massimi dal 2011. Anzi, peggio: in tema di cibo questo famoso indice è riuscito in questi mesi a polverizzare tutti i record, sia in termini nominali che reali. Non si è visto niente del genere nemmeno negli anni ’70. Riempire il piatto è diventato più difficile, non c’è dubbio. Ma riempire la caldaia non è più facile: abbiamo anche una discreta crisi del gas naturale, soprattutto in Europa. I prezzi sono esplosi a partire dalla tarda estate 2021, fino ai livelli odierni che sono molto al di sopra dell’usuale. Ai consumatori domestici finali vengono appioppate bollette doppie o triple rispetto al solito. Per le utenze aziendali va peggio: ormai molte imprese, all’arrivo della bolletta, semplicemente sospendono le operazioni.

Se tutto costa tanto di più, viene da chiedersi di chi sia la colpa. In un ambiente costituito da attori razionali, potremmo sentir discutere di cose come la logistica, l’equilibrio domanda / offerta, la disponibilità di risorse e via discorrendo. Avete presente come stiamo gestendo la cosiddetta “pandemia”, vero? Lo strumento preferito al momento pare essere la “caccia alle streghe”. Se tale è il raziocinio che applichiamo a questo problema, volete dire che non stiamo facendo altrettanto con altri problemi? Appunto, ecco qua il colpevole dei rincari: è Greta! Una ragazzina svedese, gestita da un gruppo di consiglieri opaco ed interessato, che se ne va in giro a pontificare sul tema della pressione che noi umani esercitiamo sull’ambiente. Greta Thunberg è un buon candidato, come colpevole: è giovane, inesperta, non particolarmente graziosa, piuttosto celebre e sostiene pure tesi poco popolari. Se esci di casa con una torcia ed un forcone a cercare il colpevole di una disgrazia mandata dagli dei, non potresti sperare di trovare di meglio.

Questa ragazzina, con la sua rumorosa fazione, cosa avrebbe fatto di sbagliato? Pare che il problema siano le cosiddette “politiche green”: incentivi e disincentivi volti a decarbonificare la nostra economia. Tasse e prebende che dovrebbero spingerci a dipendere meno dai combustibili fossili, e ad utilizzare di più cose come energie rinnovabili, efficienza energetica et similia. Un bel danno si dice: con più carbone e meno rinnovabili l’elettricità la avremmo pagata meno. Però c’è un problema: il gas naturale lo usavamo anche tre anni fa, e non costava queste cifre spropositate. La ragazzina svedese ha la bacchetta magica? Poco probabile. Perché allora non provare con il caro buon vecchio Putin? Lo zar di tutte le Russie, arcicattivone per eccellenza, si è permesso di dichiarare guerra ad una aspirante base NATO – o forse il fenomeno si è svolto in ordine inverso, ma che importanza ha. La guerra alla Russia porta i prezzi in alto. Apparentemente vero, ma c’è un problema: i prezzi crescevano vorticosamente già dall’estate del 2021, e gli effetti del conflitto – di molto successivo – sembrano già in via di ridimensionamento. Possiamo provare a verificare ancora una volta utilizzando un dato sostanzialmente esterno al perimetro europeo.

Inflazione % annua, USA. Grafica: FRED St. Louis.

L’inflazione negli Usa, al massimo storico da decenni secondo la Fed, di sicuro non dipende né dalle pressioni dei fan di Greta, né dalle vicissitudini dei gasdotti del Mar Baltico. E’ comparabile a quello che si rileva in tante altre contrade del mondo, e rappresenta un riferimento chiaro: all’ultimo dato globale su tutti i prodotti rilevato a marzo in tutti i centri abitati maggiori statunitensi, un bel +8,56% annuo. Insomma, l’inflazione c’è, e si vede ovunque: non è un problema limitato a prodotti specifici, e non è circoscritta ad aree geografiche definite. Appare un po dappertutto. Il problema connesso ai costi del gas in Europa è stato pubblicizzato oltre misura: stiamo parlando di gestione incompetente dei contratti di fornitura, altro che guerra. Ma i cereali costano più del sopportabile, e così anche il petrolio, ed i semilavorati industriali e via dicendo. Il problema è generalizzato, si materializza ovunque. I trasporti? In crisi anche quelli, i costi di nolo e spedizione dei container sono arrivati a livelli incomprensibili. La bacchetta magica della giovane strega svedese sembrerebbe uno strumento potente e pervasivo, vero? Viene voglia di accendere un grosso falò, come usava nei bei vecchi tempi andati. Eliminati gli iettatori, risolto il problema. Non funziona? Eliminiamo Putin, o qualche altro cattivone da operetta: a forza di roghi, riusciremo pure ad incenerire il colpevole.

Proposta alternativa: e se provassimo ad analizzare il problema con metodi meno passionali? Esiste il raziocinio, oltre al sentimento. Partiamo da alcuni dati di fatto elementari. Uno: le cosiddette “politiche green” esistono da decenni, e si tratta di un grazioso e scaltro travestimento. Tassiamo a morte i carburanti che non abbiamo perché dobbiamo far quadrare la bilancia dei pagamenti con l’estero, non perché detestiamo il petrolio. Due: la riqualificazione energetica degli edifici viene incentivata perché fa risparmiare, ancora una volta, tanti quattrini. Serve anche a non generare eccessivi disavanzi nella bilancia dei pagamenti con l’estero. Tanto per cambiare. Tre: l’elettricità da fonte rinnovabile genera risparmi, e non solo costi. Il vantaggio che si cerca sempre di nascondere è l’abbattimento del costo elettrico “di punta” nella parte centrale della giornata. In generale si tratta di produzione domestica a prezzi poco influenzati dal costo dei combustibili. Quattro: nonostante – o forse a causa di – tutti gli artifici politici, i trasporti marciano ancora essenzialmente con il gasolio; la benzina è un attore secondario. Sempre di derivati del petrolio si tratta. Cinque: la catena logistica è globale, e funziona in modo simile nel mondo. I camion son quelli in Bangladesh o in Canada. Le navi sono oggetti equivalenti ovunque. Sei: la baruffa sui gasdotti tra Russia ed Europa Occidentale è un fenomeno temporaneo e localizzato. Gli energetici costano di più tutti quanti, carbone compreso, in tutto il mondo. L’inflazione conseguente perseguita anche gli automobilisti americani, e non solo noi.

Sono considerazioni banali, ma vale la pena ribadirle. E allora cosa c’è che non va? Abbiamo politiche non così diverse dal passato. Tasse sulla CO2? Nella patria delle accise a doppia razione faranno poca differenza, e poi generano efficienza. E l’inflazione che vediamo è davvero globale, colpisce tutto e tutti: non sembra fare differenza tra chi incentiva o disincentiva questo o quel genere di consumo. E allora cosa succede? Facciamo così: domandiamoci cosa abbiamo fatto negli ultimi mesi che non avevamo mai fatto prima. Io ho un candidato: la gestione della “pandemia”. La butto lì, tanto per fare chiacchiera. Cosa abbiamo fatto per gestire la supposta “pandemia” Covid19? Facile: abbiamo chiuso in casa miliardi di persone, fermato le fabbriche, inceppato temporaneamente la logistica. Poi abbiamo provato a riaprire tutto quanto, e abbiamo dato alle persone tante banconote: se spendiamo l’economia riparte, ci si dice. Problema: non è possibile fare in sei mesi quello che normalmente si fa in dodici mesi. Se fermo una fabbrica per mesi, e poi la faccio ripartire, la produzione persa è persa, non verrà recuperata. Non si potrebbe far camminare la fabbrica più velocemente? In teoria si, disponendo di un magazzinaggio a monte e di capacità operative inutilizzate. Problema: le scorte non esistono, e generalmente anche le capacità di lavoro inutilizzate non ci sono; la moderna logistica “just in time” ha come scopo esplicito proprio la soppressione di entrambe.

Cosa abbiamo combinato? Abbiamo bloccato a singhiozzo – e ancora lo stiamo facendo, ad esempio oggi a Shanghai – ogni genere di azienda ed attività in quasi ogni parte del pianeta. Abbiamo interrotto la catena logistica. Abbiamo cancellato mesi di attività in ogni fabbrica del globo. Niente riserve, niente magazzini – non usa più avere queste cose, sono costi. Abbiamo scoperto quindi che stavamo operando le nostre aziende al limite delle capacità: ogni interruzione finisce col produrre perdite di produzione non recuperabili. Poi qualcuno ha deciso di azionare la stampante dei soldi: sussidi, ristori, prestiti, dilazioni di versamenti e via dicendo. Se il denaro spendibile aumenta e le aziende ci forniscono meno prodotti, cosa credete di vedere? Io direi banalmente inflazione, e voi? E così ecco l’inflazione, elevatissima, mai vista dai primi anni ‘80. La caccia al colpevole andrà avanti ancora a lungo. Visto che è colpa di Greta, risolviamo il problema bruciando carbone. Che bella idea: nel mentre però il carbone ha raggiunto il prezzo dell’argento sterling. Distruggiamo Putin, brutto e cattivo, così il gas salterà fuori dappertutto. Siete scettici? Forse non funzionerà nemmeno questa, vero? Secondo me, il prossimo passaggio potrebbe essere la caccia ai “nemici interni”: Putin sta a Mosca, e Greta forse si nasconde in una caverna ghiacciata da qualche parte. Ma il vicino di casa ha una stufa, e si fa presto ad andare a prenderlo: la caccia alle streghe rappresenta l’ultima consolazione per chi non vuole ammettere di avere fatte scelte sbagliate.

Può esistere un piano alternativo? Accendiamo il cervello, e vediamo di usarlo almeno un po. Ci diciamo che le serrate medioevali, sanitariamente inutili se non pericolose, hanno causato un danno devastante all’economia globale. Tutte quelle aziende che viaggiano a singhiozzo, tutti quei lavoratori bloccati: cosa credevamo di ottenere con questo comportamento? Abbiamo danneggiato produzione e logistica, e ora ci godiamo il risultato: inflazione, appunto. I diversamente furbi che ci hanno marchiati, perseguitati, vessati, rinchiusi hanno già in mente la soluzione al problema: il lockdown energetico. Avete sentito bene: visto che le loro pazzie hanno danneggiato gravemente l’economia, vogliono insistere. Ci chiudono in casa, ci tagliano il gas e ci bloccano il bancomat; e faccio una scommessa facile: i prezzi saliranno ancora, pensate che stranezza! E no, Greta e Putin non c’entrano. Se ho bisogno di una sedia e ho impedito ai lavoratori che la costruiscono di uscire di casa, la sedia non c’è – ovvero costa il doppio. Se vogliamo risolvere qualcuno dei problemi che abbiamo, vediamo di intervenire laddove si sono originati questi problemi. Nessuno si deve arrogare il diritto di decidere se siamo degni o no di uscire di casa o di lavorare; queste sciocchezze da regime totalitario non servono. Usciamo di casa una buona volta, per lavorare, per studiare e per vivere: e vedrete che l’inflazione in qualche modo la metteremo sotto controllo. Il regime totalitario, lo abbiamo visto, combina solo disastri: il recente evento di “pianificazione centrale” a cui ci siamo sottoposti ci lascia in eredità una catastrofe ormai impossibile da nascondere. Proviamo a cambiare rotta: libertà, democrazia, stato di diritto. Rischioso? Rilassiamoci, peggio di com’è ora non potrà andare nemmeno a fare apposta. Val la pena tentare.

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Di gas, rubli e bollette

Le operazioni militari continuano, in Ucraina. E continuano anche in Italia. Noialtri ci siamo permessi di attuare manovre che mi sento di definire autolesioniste. Una perla su tutte: gli “aiuti umanitari” da inviare in Ucraina si sono rivelati poco umanitari e molto militari. Non oso immaginarmi le espressioni degli addetti dell’Aeroporto di Pisa, quando hanno scoperto la natura del carico che stavano imbarcando. Piano più elevato: continua la guerra delle sanzioni, quella che abbiamo tanto praticato negli ultimi vent’anni. Funzionava bene con Siria, Libia, Iraq: proviamo con la Russia. E’ finita male in passato, ma oggi lo zar si è arrabbiato più del solito: non ha gradito il congelamento delle riserve valutarie della Banca Centrale Russa. E allora ha deciso di farci uno scherzo: d’ora in poi l’export di idrocarburi di Mosca si paga in rubli.

Tasso di cambio Euro Rublo, 10 anni. Grafica: XE.

Per contestualizzare, osserviamo la storia del tasso di cambio Euro / Rublo – per esempio via XE . Storicamente, era possibile comprare un euro con 30 – 40 rubli; valore già altino, divenuto usuale solo dopo la guerra “per procura” in Georgia del 2008. Certa gente, se non vince in battaglia, vuole comunque vincere almeno allo sportello di cambio. Con l’arrivo delle vicende di Euromaidan in Ucraina, nuovo strappo: la valuta russa va in crisi a fine 2014, quindi trova un nuovo equilibrio al cambio di 60 – 80 rubli per euro. Un deprezzamento sostenuto e duraturo, molto comodo a Mosca: spinge la sostituzione delle importazioni con prodotti nazionali. Una storia antica come la moneta, con tanti e gravi danni per le aziende italiane.

Tasso di cambio Euro Rublo, dettaglio. Grafica: XE.

E ora il dettaglio: nell’ultimo mese le vicende militari e politiche hanno causato una ennesima crisi del cambio. Quando Mosca combatte, il primo soldato a rimetterci le penne è generalmente proprio il rublo. I venti di guerra si facevano sentire già da settimane; alla fine di febbraio il grosso dell’esercito ucraino viene frettolosamente ammassato alla “linea di contatto” con le repubbliche ribelli del Donbass, e si intensificano gli attacchi d’artiglieria sui centri abitati. Messa davanti alla prospettiva di dover gestire l’esodo dell’intera popolazione, Mosca interviene. Il resto è noto a tutti, almeno per sommi capi. Il rublo, tra sanzioni commerciali e congelamento di riserve valutarie, si deprezza ferocemente: si superano anche richieste di 160 rubli per euro, oggettivamente insostenibili. Ad inizio marzo inizia la discesa: senza tanto clamore mediatico, il rublo riprende lentamente valore. Probabilmente molti operatori economici cominciano a dubitare dell’efficacia delle sanzioni. Da metà marzo in poi, cambio a 110 – 120 rubli per euro: probabilmente molte aziende occidentali hanno cominciato a darsi da fare per non perdere impianti e quote di mercato in Russia; i soldi sono pur sempre soldi.

Ed eccoci al 23 marzo: lo zar annuncia che chi vuole comprare idrocarburi in Russia, paga in rubli. Questo gioco si chiama “indurre domanda di valuta imponendola in alcune transazioni”: lo puoi fare se puoi controllare un qualche tipo di mercato che abbia rilevanza globale. I meno ingenui tra i lettori probabilmente sanno cos’è il petrodollaro, e non hanno bisogno di ulteriori dettagli. Il cambio reagisce subito, anche se non di molto: 105 – 110 rubli per euro. Si può supporre che l’effetto si farà sentire nel medio termine, nel giro di alcuni mesi. Visto che gli energetici esportati da Mosca sono quantità significative, e visto che i sostituti del gas commerciato tramite gasdotto sono molto più costosi, l’esito della manovra appare scontato: alla chetichella, con vari stratagemmi, gli operatori europei si procureranno rubli e rimetteranno in moto le transazioni con la Russia. Ma su una base nuova, e per un lasso di tempo che non conosciamo a priori. Questo tipo di contro sanzioni era già stato messo all’opera nel 2014: ne avevo scritto pure io. Il giro di valzer odierno non è concettualmente diverso, rispetto a quanto accadde nel 2014: solamente a Mosca usano metodi più drastici a fronte di sanzioni più drastiche; potevamo immaginarcelo, mentre venivano congelate parte delle riserve valutarie russe. A Bruxelles e a Washington non imparano mai nulla, nevvero?

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La strategia della Russia?

Ed ecco qua, si surriscalda la guerra infinita d’Ucraina. I giornaloni nostrani forse non ci avevano fatto caso, ma da quelle parti si combatte dal 2014, mica ieri l’altro. I fatti: alla caduta dell’Impero Sovietico, qualche burlone decide di prendere le artificiose suddivisioni amministrative accettate dai comunisti, e trasformarle in nuovi confini di Stato. Imprigionando milioni di russi etnici e/o linguistici al di fuori della Russia propriamente detta. E così l’Ucraina, Stato sintetico creato nei secoli mettendo assieme territori e comunità assai eterogenei, subito dopo i fatti che conosciamo come “Euromaidan” prende a combattere la sua grossa minoranza russa. Il conflitto è inizialmente feroce, quindi evolve in uno stallo che persiste fino all’inizio di quest’anno. Nel 2022 le cose cambiano: la guerra apparentemente sopita torna ad infiammarsi, al punto di assistere ad un evento a cui pochi avrebbero creduto: le forze armate della Russia cominciano ad occupare l’Ucraina. Si può dire qualsiasi cosa ed il suo contrario al riguardo, ma i russi esattamente cosa stanno facendo? Che comportamento tengono in questo frangente?

La situazione sul terreno alla sera del 18 marzo; il sito Readovka fornisce la mappa in alto. E’ una elaborazione di notizie ufficiali o un po meno ufficiali, comunque vicina alla visione offerta dal Cremlino. Operazioni militari in corso a nord, ad est e a sud, limitato impiego di mezzi aerei – questo lo hanno capito anche i sassi – ed un blocco navale sul Mar Nero che per ora non sembra avere dato luogo a sbarchi importanti. Più che altro abbiamo una operazione di terra, abbastanza lenta. I media nostrani già scommettono su uno stallo: la macchina da guerra russa si è piantata, dicono. Le munizioni scarseggiano, i mezzi arrancano, la resistenza è solida. Stiamo bene attenti a non berci certe semplificazioni. I russi sono abituati a dare per scontato di dovere operare movimenti terrestri su distanze di migliaia di chilometri. In mare forse non brillano, ma a terra non hanno rivali. E così, l’esercito che riesce a muovere linee logistiche di 5.000 km in mezzo alle lande gelate della Siberia non sarebbe capace di coprire il centinaio di chilometri che separano i sobborghi di Charkiv da Poltava. Roba da non credere. E probabilmente non è vero.

Proviamo a spegnere la TV e ad accendere il cervello. I russi hanno cinto d’assedio il territorio ucraino a nord, est, e sud. Si sono spinti in avanti per 100 – 150 km, davvero poco, e quindi si sono fermati. Essendo dislocati ovunque su un perimetro di almeno 1.300 km, non esiste per loro alcun ostacolo geografico: si trovano su ambo i lati di qualsiasi fiume, e hanno accesso a qualsiasi infrastruttura. Ovunque decidano di muovere, possono farlo agilmente; ma insistono a tenere questa posizione da almeno una decina di giorni, e stanno fermi. Immaginiamo che questo non sia un fatto accidentale, ma che invece sia proprio il loro piano: circondare la frontiera ucraina, ed attendere. Attendere cosa? Fateci caso: la strada tra il fronte est e l’ovest del Paese è sempre stata libera. Così pure il corridoio che esiste a nord di Odessa, sempre aperto. Idem a Kiev, o a Charkiv: il percorso a sud è praticabile. Sono stati anche proposti a più riprese ulteriori corridoi di evacuazione, offerti esplicitamente sia ai civili che ai militari. Per ogni grosso concentramento di forze ucraino, esiste una vistosa via di uscita sostanzialmente praticabile.

Se c’è una cosa che in guerra non vuoi assolutamente che accada, è che il tuo nemico riesca a capire dove hai dislocato le tue truppe. E qui viene il bello: le tante cartine che circolano e che mostrano la disposizione delle forze russe in Ucraina si sono rivelate sostanzialmente attendibili. Le versioni fornite dalle autorità dei Paesi NATO sono poco diverse. Fonti terze come Al Jazeera raccontano cose simili. Da quando in qua un qualsiasi stato maggiore si mette a pubblicare per tutti mappe attendibili delle proprie operazioni in tempo quasi reale? Assurdo, vero? E se questo fosse stato il piano fin da subito? Torniamo a guardare quei grossi corridoi, aperti, in mezzo all’Ucraina: non vi sembrano gigantesche vie di fuga? Se vuoi distruggere il nemico, cerchi di circondarlo; così non può ricevere rifornimenti. Il grosso – si dice forse i 3/4 – dell’esercito ucraino si trova a ridosso della “linea di contatto” nel Donbass. Per aggirarlo alle spalle basta coprire circa 200 km: come mai questa semplice manovra non è stata messa in atto? Non bastavano due settimane per percorrere 100 km in mezzo ai campi? Possibile che siano estensioni così insormontabili?

Ancora una volta: e se il piano fosse proprio questo? Lasciare aperti ampi corridoi di fuga, premere con insistenza sulle unità dell’esercito rivale, fare in modo che tutti – ma proprio tutti, anche i soldati semplici – siano al corrente della possibilità di smobilitare verso ovest. Questo non è un assalto terrestre: questa è una evacuazione forzata. A che pro? Che senso ha spingere le varie unità militari ucraine ad ovest? Non sarebbe forse meglio tentare di catturarle, o distruggerle, o una via di mezzo? E qui bisogna capire quale sia davvero il piano di Mosca. La mia ipotesi, per quel che vale, è questa: a Mosca scommettono sui giovani, demotivati coscritti che compongono il grosso dell’esercito di Kiev. Se le varie unità di cui sono parte cominciano a smobilitare verso ovest, finiranno semplicemente col dissolversi. Immaginate di esserci voi, al fronte in Donbass, a sparare ai vostri concittadini senza capire perché. Avreste piacere di farlo? Vorreste morire per questo? Forse non è difficile da capire: a Mosca fanno leva sul morale della truppa nemica. Hanno messo le vie di fuga in bella mostra, ed aspettano. La guerra i russi la fanno a modo loro, ed è tutt’altra cosa rispetto a quello che noi occidentali crediamo di vedere.

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Mortalità in Italia – Atto II

E così, con sommo ritardo, riprendiamo il filo del discorso circa la mortalità complessiva in Italia. I morti, come noto, sono morti: non li possiamo nascondere, e neanche possiamo farli apparire con qualche trucco. Statisticamente parlando, si tratta di una categoria affidabile come poche altre. In Italia abbiamo una pandemia, e abbiamo ovviamente le relative vittime: nella puntata precedente abbiamo potuto osservare da un lato l’effettiva risalita della mortalità in corrispondenza alle ondate pandemiche, e dall’altro la presenza ricorrente delle malattie stagionali; capaci di fare vittime in qualsiasi annata, e non solo negli ultimi due anni. Il bilancio finale per il 2020 è in ogni caso pesante: la mortalità complessiva è salita in modo innegabile. Forse il numero di decessi per settimana non è stato così clamoroso, neanche a marzo / aprile 2020; ma la persistenza temporale del fenomeno, in specie a partire dall’autunno, ha comunque causato un danno grave. Vediamo la contabilità finale come risulta dai dati ISTAT.

Mortalità totale annua in Italia, 1920 – 2020. Fonte: ISTAT.

Per la mortalità annua le banche dati di riferimento sono le usuali serie storiche ISTAT; dal 2002 in avanti le tavole degli indicatori demografici. Che dire? I cambiamenti importanti in Italia si sono visti nella prima metà del ‘900. Nel periodo compreso tra la fine della Prima Guerra e gli anni ‘50, si è avuta una progressiva riduzione della mortalità, intesa come numero di decessi annui per migliaio di abitanti. La Seconda Guerra ha rappresentato una interruzione momentanea per un andamento di diminuzione lineare ed apparentemente inesorabile. Dal 1948 in poi, si scende definitivamente al di sotto degli 11 decessi annui per mille abitanti. Fino ai giorni nostri, i valori tipici sono stati contenuti nell’intervallo 9 – 11 decessi annui. Questo almeno fino al 2020, e all’arrivo di Covid19: con 12,6 decessi per mille abitanti, è l’anno peggiore dal 1945. Si noti che nel periodo 2015 – 2019 il dato tipico orbitava attorno a 10,6; un incremento di 2 decessi annui per mille abitanti, o 120.000 di troppo. Ma questi decessi come si possono suddividere? Come si distribuiscono per causa? Come si relazionano alla restante mortalità?

Mortalità settimanale Covid19 & altre cause. Fonte: Eurostat, Ministero Salute.

Esercizio interessante: distinguere i morti Covid da tutti gli altri. Non è così complicato: basta sottrarre al totale – fornito da Eurostat – i decessi segnalati dal Ministero della Salute ed attribuiti alla pandemia. Ricordando ovviamente che per “decessi Covid” intendiamo i deceduti positivi ai test – senza stare qui a domandarci se sia questa la causa di morte fondamentale, cosa che dovrà essere ridiscussa a parte. La seconda immagine riassume l’operazione, dividendo i decessi per settimana. Non è poi così diversa né dalla mera proiezione della mortalità totale, né delle serie dati sui morti attribuiti nominalmente a Covid19. Vi si riconoscono tutti i picchi di mortalità già discussi. Se osserviamo bene la situazione di marzo / aprile 2020, notiamo che la mortalità in eccesso rispetto alle medie usuali è costituita da due componenti: i decessi “causati da Covid”, in alto, ed una ulteriore frazione di decessi per altre cause che sporge nettamente rispetto alla norma. Stranamente, questo medesimo andamento si ripropone anche in autunno e durante l’inverno; ad ogni ondata identificata come pandemia, abbiamo una ondata di altri decessi. I rapporti sono variabili, e non sembra sussistere una relazione temporale precisa: a primavera 2020, prima sopraggiunge l’apice della mortalità complessiva e successivamente i decessi Covid divengono frazione rilevante del totale; nelle prime settimane del 2021 accade il contrario.

Domandiamoci ora: quanti sono questi decessi “non Covid” che compongono buona parte della mortalità in eccesso visibile nei grafici? Possiamo prendere un valore di mortalità settimanale tipico per la bella stagione, diciamo nell’intervallo 2016 – 2019; l’intervallo costituito dalle settimane 21 – 40 è apparentemente adatto allo scopo. Nel quadriennio osservato, in media abbiamo 10.999 – 11.469 decessi totali per settimana; come detto, in relativa assenza di malattie stagionali. Volendo fare le differenze, è facile dedurre il numero di decessi “non Covid” che compongono le varie ondate pandemiche: per banale sottrazione della mortalità tipica di base, e quindi somma dei risultati positivi che ricadano ragionevolmente all’interno di tali ondate così come rilevate dai dati del Ministero. Nell’intero anno 2020, le settimane che potremmo considerare sono comprese negli intervalli 9 – 17 e 41 – 53. Risultato: possiamo stimare un intervallo di 58.352 – 68.692 decessi “non Covid” che contribuiscono ad ampliare la mortalità in eccesso durante le varie ondate della pandemia. Nell’intero 2020, sono stati censiti ufficialmente 74.000 – 75.000 decessi Covid, a seconda di voler stimare al 31/12 oppure comprendere la settimana 53 per intero. I morti Covid, a voler essere onesti, costituirebbero quindi grossomodo il 52 – 56 % della ipotetica mortalità “da pandemia”, o “in eccesso”, nel 2020.

E’ lecito ora domandarsi da cosa siano causati i decessi “non Covid” che costituiscono questa rilevante frazione dell’incremento di mortalità visibile durante le varie ondate della pandemia. La prima risposta banale è che si tratti di persone decedute per Covid, ma non rilevate dalle statistiche. Questa è una idea poco credibile: il morto non è il contagiato. Ci sono in gioco sintomi rilevanti, e molti decessi sono stati attribuiti a Covid in seconda battuta, riesaminando i singoli casi ed eseguendo dei test. Oltretutto il rapporto tra le due categorie di cause pare raggiungere valori di punta non così differenti durante le varie e successive ondate. Possibile che l’accuratezza diagnostica ad aprile 2021 fosse scadente come a marzo 2020? Possibile, ma non così ovvio: forse è pericoloso scommettere su una simile ipotesi. Oltretutto il clima di “caccia al positivo” che ha caratterizzato il 2020, e buona parte del 2021, dovrebbe indurre alla prudenza. Ben difficilmente i solerti “cacciatori di casi positivi” si saranno fatti sfuggire qualche deceduto positivo ai test. Ricordiamo bene questo dettaglio, prima di sospingere tesi avventate.

Abbiamo anche altri candidati per spiegare il fenomeno: Covid19 non è l’unica malattia stagionale. Banalmente, dovremmo quindi avere una marea di decessi Covid impostati sopra ad una marea di decessi in eccesso che sono dovuti ad altre malattie stagionali. La somma può spiegare facilmente il risultato, terribile. Qualcuno ha notizie dell’influenza? Di solito in inverno c’è quel genere di malattia, assieme ad un ampio spettro di para influenze, raffreddori ed infezioni associate. Problema: ci stiamo raccontando da un anno e mezzo che l’influenza non si vede più da nessuna parte almeno da marzo 2020. Stentate a crederci, vero? Eppure si tratta di un discorso popolare, lo potete notare usando una ricerca sul web. Tra i tanti articoli, possiamo scegliere quello targato Scientific American. Propone più o meno il discorso che già conosciamo: l’influenza è stata messa all’angolo a causa delle misure prese contro il più celebre Covid19. Se è vero, allora sappiamo che i morti “non Covid” semplicemente non sono morti a causa di malattie stagionali non rilevate. Se è falso, allora abbiamo mischiato i morti di influenza dentro al calderone dei morti Covid, a causa della somiglianza dei sintomi e della imprecisione dei test. Il risultato è il medesimo: questi morti “non Covid” in eccesso rimangono un mistero, ma è ragionevole supporre che non siano stati causati né da Covid19 né dalle altre tipiche malattie respiratorie stagionali.

Vi propongo una lettura alternativa, estremamente sgradevole, per giustificare questo curioso fenomeno. Avete presente cosa abbiamo fatto al presentarsi della pandemia? Abbiamo fatto, o raccontato, tante cose diverse. Ma ce n’è una che non ci siamo mai fatti mancare: i lockdown, serrate medioevali che avrebbero dovuto impedire la trasmissione del contagio. Tralascio i discorsi circa l’efficacia, forse non eccelsa, di questi provvedimenti in tema di contenimento dei contagi; ci troviamo davanti ad un circo equestre di “esperti” che da un lato raccontano di sfortunate influenze mandate in estinzione da queste misure, e dall’altro di una malattia respiratoria, detta Covid19, che continua a circolare placidamente alla faccia delle medesime misure. Fa ridere, vero? Soprassediamo. Ragioniamo semmai su un problema pratico: se chiudo in casa le persone, impedisco l’accesso ad ambulatori, ospedali e pronto soccorso, cosa mi aspetto di ottenere? I servizi in questione servono a curare i malati. Se non possono utilizzarli, saranno guai. Intuibile l’effetto: vedrò incrementare la mortalità per molte e diverse cause.

Vi sembra lunare come idea? Ma certo, stravagante ed innovativa. Così innovativa che era già discussa in pubblico un anno fa. Un testo a caso, via International Affairs: “… There has been a remarkable lack of observed statistical difference in the rates of death for countries, and for US states, that have and have not locked down …”. Bonariamente, le serrate fanno poca differenza. Ma ci sarebbero anche punti di vista diversi, tra i tanti quello rappresentato da un articolo via British Medical Journal di maggio 2020: “… At a briefing hosted by the Science Media Centre on 12 May he explained that, over the past five weeks, care homes and other community settings had had to deal with a “staggering burden” of 30 000 more deaths than would normally be expected, as patients were moved out of hospitals that were anticipating high demand for beds. Of those 30 000, only 10 000 have had covid-19 specified on the death certificate …”. Articolo vecchiotto, vero? Ma è proprio questo il dramma: il problema gestionale era chiaro a maggio 2020. E chiare erano le conseguenze. Un’ondata di mortalità in eccesso, probabilmente evitabile, perlopiù non dovuta al celebre Covid19.

Ricapitoliamo. Nel corso del 2020, abbiamo una pandemia importante ed un innegabile incremento della mortalità complessiva. Ad ogni ondata pandemica, corrisponde sì un incremento di “decessi Covid”, intesi come deceduti positivi ai test, ma anche un balzo nei decessi inequivocabilmente dovuti ad altre cause. Le spiegazioni che possiamo individuare fanno acqua: non si tratta di decessi da Covid19 sfuggiti alle statistiche, ed in generale non sono dovuti alle malattie respiratorie stagionali in senso lato. E’ lecito sospettare che si tratti degli effetti – negativi – dei lockdown che ci sono stati imposti. Il pericolo era già stato evidenziato, dati alla mano, nell’estate del 2020. I sostenitori dei vari lockdown vanno raccontando che, in assenza di provvedimenti, la situazione sarebbe stata peggiore. Dimenticano forse di spiegarci come mai in Svezia la pensino diversamente, ed anche di spiegarci quale sia il beneficio sanitario di prescrivere cose come la “vigile attesa” a persone che necessitano di cure mediche. Nel mentre, la defunta influenza sembra essere ricomparsa – almeno in TV; forse le misure di contrasto alla pandemia non la avevano fatta estinguere, forse. La questione circa le cause della eccessiva mortalità rilevata nel 2020 rimane assai fumosa: nel dubbio, mi terrò parecchi dubbi.

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Mortalità in Italia – Atto I

Riprendendo il filo del discorso iniziato con la carrellata di grafici confronto per le mortalità settimanali registrate in giro per l’Europa, possiamo provare a chiederci cosa è successo qui in Italia. Ci stiamo raccontando che la pandemia da Covid-19 uccide tante persone: eseguiamo dei test, individuiamo dei positivi, analizziamo dei sintomi; e se i conti tornano, abbiamo persone morte di Covid-19. Però ci sono alcuni problemi, già evidenziati in altri Paesi europei: falsi positivi, falsi negativi, malati oncologici spacciati per vittime del raffreddore, persone annegate risultate positive al tampone, anch’esse definite come “morti covid” – una litania infinita di inesattezze statistiche ed acrobazie contabili. Vale la solita regola: i morti sono morti, e nessuno può farli apparire o sparire per magia. Se andiamo a leggere il dato di mortalità settimanale o mensile totale, e se c’è una pandemia, allora dovremo vedere i cumuli di morti. Impossibile sbagliare. Affidiamoci in primis al nostro Istituto Superiore di Sanità, che pubblica il rapporto titolato “Impatto dell’epidemia Covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente – anno 2020”.

Decessi mensili nel periodo gennaio-dicembre 2020 per l’Italia ed alcuni Stati Europei.
Incremento percentuale rispetto alla media 2016-2019. Grafica: ISS.

Dalla prima immagine, fornita direttamente da ISS, una considerazione ovvia: la pandemia recente ha prodotto un incremento della mortalità. Il dato di mortalità mensile 2020, confrontato con i valori medi tipici per il periodo 2016 – 2019, mostra incrementi percentuali considerevoli. A marzo e a novembre 2020, anche un +50% rispetto alle medie tipiche del mese. Il fatto che spagnoli, polacchi, belgi ed olandesi siano riusciti a far peggio non cancella certo il nostro problema. Però sapete, c’era un tizio che diceva che ci sono tre tipi di bugie: “Lies, damned lies, and statistics”; come dire bugie, dannate bugie e statistiche. E’ un problema che affligge anche me: posso benissimo imporre una visione di comodo, basata su dati corretti, ed ingannare me stesso e gli altri. Succede di frequente. L’immagine proposta da ISS confronta valori di mortalità del 2020 con una media dei valori mensili registrati nei 4 anni precedenti. Un valore mensile è una cosa, una media mensile su base pluriennale è un’altra cosa. Forse c’è un problema: proviamo ad affidarci al mero dato grezzo, senza cercare di mescolare parte delle cifre in valori medi. Una media non è una menzogna, ma è comunque una media: potrebbe essere scorretto confrontarla con un singolo valore puntuale.

Mortalità settimanale totale in Italia, 2016 – 2021. Fonte: Eurostat.

E quindi nella seconda grafica, basata sulla banca dati Eurostat, possiamo dare un’occhiata all’andamento della mortalità settimanale per il periodo compreso tra l’inizio del 2016 e la 21° settimana del 2021. Il quadro che emerge da questi dati grezzi è un po più complesso di quel che ci raccontano i telegiornali. Primo: ad ogni inverno abbiamo una pandemia prodotta da malattie stagionali – influenze, para influenze, raffreddori – che produce inevitabilmente un incremento della mortalità totale. Secondo: ogni ondata epidemica stagionale si situa in modo diverso nel tempo, e produce effetti diversi. Terzo: mescolare i dati inerenti ad annate diverse appiattisce gli andamenti, e cancella i valori estremi – che però sono per l’appunto i valori che identificano ogni stagione influenzale. E così abbiamo si troppi morti a marzo aprile 2020, e tanti morti nell’inverno 2020 – 2021. Ma a gennaio 2017 abbiamo avuto una mortalità di punta di 19.000 decessi a settimana; simile ai valori massimi registrati a fine novembre 2020. Qualcuno di voi si ricorda il lockdown di gennaio – febbraio 2017? No? In effetti nemmeno io. Come mai? Eravamo forse distratti?

A gennaio 2017, e se per questo anche nei due inverni successivi, a nessuno è saltato in mente di rinchiuderci in casa. Naturalmente i morti di Covid-19 sarebbero stati molti di più in assenza di misure restrittive: il fatto che la mortalità settimanale in tempo di pandemia sia rimasta relativamente sotto controllo è merito delle misure prese. Ma siamo sicuri che sia andata così? Tra le misure introdotte vorrei ricordarne almeno una di cui si è parlato poco: abbandonare i malati e rifiutarsi di curarli. Perché è questo che abbiamo fatto: abbiamo spedito migliaia di malati a spasso tra le varie RSA, abbiamo praticato oculati interventi di “vigile attesa”, abbiamo sostanzialmente negato o comunque ritardato molto le visite domiciliari. Chi mi garantisce che questo atteggiamento non abbia esacerbato il problema? E chi può dimostrarmi che nel complesso le misure prese abbiano avuto un impatto vantaggioso in termini di mortalità? Come la mettiamo con tutti gli altri malati, cosiddetti non covid, che sono stati obbligati a posporre esami e trattamenti? Che è stato di loro? Il dubbio esiste, e per ora mi terrò il dubbio.

Una ulteriore chiosa: il numero di morti a settimana può anche essere alto, ma se si tratta di un valore isolato l’effetto finale è modesto. Bisogna vedere per quanto tempo la mortalità in eccesso può agire sulla nostra popolazione. Le due medie mobili della seconda grafica permettono di apprezzare il fenomeno: il valore di punta registrato a fine marzo 2020 sembra irraggiungibile, ma una media mobile a 7 settimane lo fa apparire molto meno importante. Probabilmente abbiamo patito più danno nell’inverno 2020 – 2021, almeno a giudicare dalle superfici sottese alle curve. Le stagioni influenzali delle annate precedenti restano rispettabili: evidentemente non si muore solo nell’era Covid. Di malattie stagionali si muore ogni anno, che il telegiornale voglia riconoscerlo oppure no. Ora proviamo a vedere in dettaglio cosa è successo a partire da gennaio 2020, sempre con la banca dati Eurostat – che poi è un mero derivato dei dati ISS / Istat.

Mortalità settimanale totale in Italia, 2020 – 2021. Fonte: Eurostat.

In condizioni di normalità, al di fuori delle epidemie stagionali, ogni settimana in Italia registriamo 10.500 – 12.500 decessi circa. Nelle prime 8 – 9 settimane del 2020 quasi 14.000 a settimana; successivamente si è avuta l’esplosione di Covid19, con l’imposizione di misure restrittive generalizzate. Nei primi giorni di maggio del 2020 la mortalità totale era già rientrata a 13.000 decessi per settimana. Stranamente, le misure di emergenza non sono state tolte: come mai i 14.000 morti a settimana dell’inizio dell’anno erano stati giudicati totalmente irrilevanti? E perché abbiamo ritenuto invece di essere ancora nel mezzo di una pandemia con 13.000 morti a settimana? Avevamo i reparti ospedalieri intasati di persone affette da polmonite, questo era il problema. Domanda: qualcuno di voi ha visto la serie storica di occupazione dei posti per pneumologia e terapie intensive per gli ultimi dieci anni? No, vero? Ogni inverno i giornali si riempiono di articoli allarmati per gli ospedali “presi d’assalto” a causa dell’aria tossica e dei relativi effetti sui nostri polmoni – un tema già trattato anche qui. In assenza di serie dati trasparenti, possiamo solo supporre che la situazione sia stata molto più grave del solito. Supporre non è garantire: nel dubbio mi terrò il dubbio.

Osservando meglio il successivo inverno, scopriamo che c’è stato un incremento meno marcato della mortalità totale: circa 19.000 decessi a settimana negli ultimi giorni di novembre. A fare danno, come detto, è l’insistenza temporale del fenomeno: la mortalità è rimasta abbastanza elevata fino alla metà di aprile 2021. Le conseguenze sono note: chiusure a singhiozzo, un relativo accanimento contro la scuola, gravi danni economici. Però ci possiamo consolare con un dettaglio gustoso: nei primi giorni di maggio 2021, i morti a settimana rientravano sotto i 12.500. Praticamente mortalità nella norma, ed in rapida discesa. Ovviamente le misure restrittive imposte a livello centrale sono ….. rimaste dov’erano. Precisamente il copione di maggio 2020. E non c’è ratio in una cosa del genere: anche un bambino avrebbe potuto capire che l’avvicinarsi dell’estate avrebbe risolto il problema – in alternativa avremmo potuto semplicemente accettare i numeri del momento per quel che erano. Per questo lasso di tempo, è assai probabile che le chiusure non abbiano potuto né diminuire né incrementare i decessi. In compenso, hanno aggravato la situazione economica di molte famiglie. Ancora una volta, rimane un dubbio: ma a che scopo stavamo tenendo chiuso il Paese a maggio? Un mistero misterioso che terrà impegnati gli storici di domani.

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Per scherzare, che fa bene quando i tempi sono bui

Una conversazione a cui ho potuto assistere di recente.

Alle volte meglio ridere che piangere. Aiuta a vivere un po meglio, anche se forse non più a lungo. Ci aspettano tempi che definire tristi è un eufemismo. Suppongo che sarà difficile lavorare, curarsi, uscire di casa. Per tutti, non solo per qualcuno – come qualche ingenuo ancora crede. Voglio sperare che almeno riusciremo a portare il pane in tavola. Certe cose le vediamo solo alla TV, noialtri; ma ormai i tempi sono cambiati: il reportage lo faremo aprendo la finestra e guardando in strada. Spero che avremo ancora la capacità di sorridere, per non rinunciare a vivere.

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Afghanistan: quanto costa sparare ai miserabili

Avete sentito l’ultima notizia? Gli elicotteri portano via il personale dagli edifici che ospitano gli occidentali a Kabul. Il viaggio prosegue in aereo, per chi può, verso casa. Ma un conto è prendere un taxi per andare all’aeroporto, tutt’altro discorso è trovarsi circondati dai nemici e doversi aggrappare ad un elicottero, magari dal tetto di un edificio assediato; sono due situazioni piuttosto diverse. Quel che viviamo ora è ovviamente una eco di quel che accadde a Saigon, in Vietnam, alla fine di aprile del 1975. Questa è la guerra del cinema: rotte improvvise ed impreviste, fughe rocambolesche, eroi da copertina che si battono contro cattivoni da operetta, viscidi collaborazionisti che scappano dove possono. E’ proprio quello che vorreste vedere in un bel film hollywoodiano: la ritirata precipitosa in elicottero dai tetti è un tòpos letterario, consacrato tra gli altri da Romero nella pellicola Zombi – Dawn of the Dead . Immagino che nel 1978 il ricordo delle fughe in elicottero da Saigon fosse ancora fresco.

Spegniamo il televisore e torniamo con i pedi per terra. La guerra, quella vera, non è fatta di colpi di scena o di improbabili atti di eroismo. E’ fatta di mezzi, munizioni, rifornimenti. La guerra è una questione di logistica: chi riesce a recapitare sul terreno la più grande quantità di mezzi, forniture e persone alla fine vince. I generali vincono le battaglie, le economie vincono le guerre. Ed eccoci a far la guerra in Afghanistan: si tratta di tirare bombe in testa a pastori e contadini, male armati e privi di organizzazione. Per un esercito moderno ed organizzato non è particolarmente difficile. Le difficoltà imposte dal terreno obbligano ovviamente a rinunciare alla pretesa di un dominio totale: pazienza se le montagne ed il territorio rurale rimangono relativamente fuori controllo, le città basteranno. In linea di principio, e ragionando da un ufficio, non è una operazione così difficile. Sarebbe come giocare con i droni in qualche paesucolo africano, uno sforzo modesto. Questa la pensata alla base dell’intervento: costa poco, non impone grossi rischi.

Proviamo ad aprire la carta geografica: l’Afghanistan dove sta? Sta in mezzo all’Asia. Non ha accesso al mare, se non attraverso le strade del Pakistan. Sono 500 km almeno, oppure più di 1000 km se vogliamo raggiungere la capitale Kabul. Non ci sono ferrovie, nel senso che non esiste una vera rete ferroviaria. Esistono tronconi che collegano alcune località alle reti del Turkmenistan, dell’Iran o dell’Uzbekistan. I collegamenti a sud con il Pakistan sono proposti sulla carta, ma in pratica si viaggia per strada attraverso valichi difficili, in un territorio davvero pericoloso. Politicamente non possiamo pensare di affidare la logistica ai valichi con Iran e Cina, ovviamente ostili. Il Pakistan è un alleato teorico, ma non offre sicurezza e deve convivere con le frange estremiste dell’etnia Pashtun. A nord qualcosa si può fare, e si è fatto, con i vari Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kazakistan. Ma stanno nel mezzo dell’Asia: raggiungerli è una ennesima fatica di Sisifo. Se vuoi rifornire e far funzionare grandi contingenti militari in Afghanistan, e se questa è la situazione, allora devi affidarti a pericolose e costose operazioni di trasporto combinato via terra da sud, o magari attraverso Caucaso e Caspio. O più probabilmente a costosissimi ponti aerei. Poi sul terreno la situazione peggiora: le infrastrutture non esistono, e spesso l’ultimo miglio è una pazzia da svolgere in elicottero.

E allora i costi finali dell’operazione a quanto ammontano? Se spendo tanto, il conto alla fine si vede. Per avere una idea generale di quanto abbiano speso gli USA nelle guerre post 11 settembre, possiamo spulciare il progetto Costs of War. Nel medio termine, in tutto 6.400 miliardi dollari. Per la sola campagna in Afghanistan, secondo quelli di Military Times, staremmo ben al di sopra dei 2.000 miliardi di dollari: “… most of the money came out of $933 billion in DoD overseas contingency funding. The rest includes: $443 billion in DoD base budget increases to support the war; $296 billion to care for veterans; $59 billion in State overseas contingency funds; and $530 to cover the interest on the money borrowed to fund 20 years of deployments …” . La spesa diretta da parte del Ministero della Difesa USA, preminente sul totale, pare situarsi ad almeno 1.400 – 1.500 miliardi di dollari più gli interessi. Una campagna militare ventennale, di enormi dimensioni, in un territorio impossibile, gestita tramite una catena logistica che potremmo definire come la più inefficiente, pericolosa e costosa di tutta la storia militare. Il consuntivo alla fin fine non poteva che essere astronomico.

Sapete, l’Afghanistan è spesso definito come “la tomba degli imperi”. A turno, svariate presunte o auto nominate potenze imperiali hanno cercato di sottometterlo. Di solito l’impresa si conclude in malo modo: interessante il caso degli imperi britannico e sovietico. Anche nell’antichità questo territorio ha sempre rappresentato un bersaglio ostico e poco conveniente. In anni recenti, è venuto di moda spiegare il problema in termini di propensione a combattere: i miliziani del sud, fanatici e motivati, sarebbero un ostacolo insormontabile. Questa spiegazione non spiega come mai questo territorio abbia rappresentato una spina nel fianco anche per Persiani e Macedoni, ben prima della nascita dell’Islam radicale. Riapriamo la carta geografica e torniamo a guardarla: montagne inaccessibili, infrastrutture inesistenti, distanze considerevoli, scarsa densità di popolazione, impossibilità di accesso al trasporto marittimo. Da almeno 25 secoli, questa parte di mondo è forse uno dei luoghi peggiori nei quali spedire un grosso esercito a far la guerra. Le religioni, le culture e le ideologie si avvicendano, ma la catena logistica rimane impossibile. Immaginare una grossa operazione militare in Afghanistan come se fosse un gioco di tiro al bersaglio in Somalia o in Yemen è un errore clamoroso e per certi versi infantile. Quando ci decideremo ad insegnare un po di geografia ai nostri pianificatori politici e militari?

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Vaccini: pensano che siamo scemi

Vi propino una bella notiziola via AdnKronos: “… Sono quasi 4.000 i contagi da coronavirus in Israele oggi, 3 agosto 2021, secondo i dati del bollettino con i numeri delle ultime 24 ore …”. Che in Israele ci fosse qualche problema lo sapevamo già, e non sono i soli a passare dei guai. Avevano sperimentato medie di 8.000 – 9.000 casi al giorno a gennaio 2021; al momento in valor medio a 7 giorni hanno superato i 3.000 casi giornalieri. Butta abbastanza male. Dallo stesso lancio di agenzia apprendiamo anche che “… I pazienti in condizioni definite gravi sono 221, nove in più rispetto a ieri, 66 in più – sottolinea ancora il giornale – rispetto a martedì scorso. Secondo i dati del ministero della Salute, aggiunge Haaretz, il 42% dei pazienti in condizioni gravi non è vaccinato contro il coronavirus …”. Non sono numeri grossi, ma crescono senza sosta. E naturalmente l’estensore ci ricorda – suppongo riportando un comunicato del Governo israeliano – che ben il 42% dei malati gravi non è vaccinato. Tanto per ribadire il ben noto concetto, casomai qualcuno non avesse capito bene.

Problema: avete mai provato l’ebbrezza di una bella sottrazione? Alla scuola elementare la maestra ci obbligava a provare. Facciamo, che so, 100 – 42. Se ricordo bene fa 58 – per sicurezza ho controllato con la calcolatrice. La velina delle autorità sanitarie di Tel Aviv forse non esponeva esplicitamente una informazione importante: al momento ben il 58% dei casi gravi ricoverati per Covid in Israele è costituito da vaccinati. Descrivono una fetta del problema, omettendone una più grossa. E non ci ricordano, ovviamente, che in Israele al 3 agosto circa il 64% della popolazione ha ricevuto un qualche vaccino. Basta poco per capire quale sia l’efficacia relativa dei vaccini in uso per quel che attiene la gravità dei sintomi; lascio il calcolo ai lettori. Israele è avanti a noi di quasi tre mesi in tema di vaccinazioni; da cui l’importanza di osservare quel che accade laggiù: è lo specchio del futuro prossimo. Quanto al modo di riportare la notizia da parte dei media e delle autorità: pensano che siamo scemi. Potrebbero anche avere qualche ragione.

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