Alcoa: com’è andata

A riflettori spenti, è ora di ripensare alla vicenda dell’impianto Alcoa di Portovesme, in Sardegna. Una fabbrica che produce alluminio recuperandolo per riduzione dalla bauxite. Un po di storia: all’origine l’azienda si chiamava Società Mineraria Carbonifera Sarda; nata dalla fusione di molte attività preesistenti nell’estrazione del carbone. A questo iniziale atto di statalizzazione voluto da Mussolini negli anni ’30 – e che fornirà all’Italia milioni di tonnellate di carbone durante la guerra – seguirà il tentativo di avviare una centrale termoelettrica naufragato con la nascita di Enel negli anni ’60. E in quegli anni crescerà l’interesse per la metallurgia dell’alluminio, con l’avvio delle attività che oggi fanno tanto discutere. A fine anni ’80 il complesso confluisce in Alumix, una partecipata statale nell’orbita di Efim, contenitore di aziende a parziale o totale capitale pubblico.

Dalla gestione Alumix gli italiani hanno ereditato dissesti di un certo rilievo, certificati anche nei documenti della procedura di infrazione Ue. Testualmente: “… La Commissione ha deciso di chiudere la procedura che aveva avviato nel 1992 e nel 1994 nei confronti di aiuti – 400 miliardi di Lire di apporto di capitale e 1500 miliardi di Lire di ripianamento dei debiti – a favore della società Alumix in previsione della sua privatizzazione….”. Circa 1.900 miliardi delle buone vecchie lirette per ripianare i debiti dell’azienda. Una azienda che in effetti ha prodotto sempre e solo debiti per almeno mezzo secolo, assieme a qualche ritorno sul piano occupazionale in un’area della Sardegna in cui di lavoro ce n’era effettivamente pochissimo.

Con gli anni ’90 arrivano gli americani di Alcoa, e rilevano l’attività di produzione dell’alluminio a Portovesme. A loro la fabbrica, a noi i debiti: il mercato funziona così. Però manca un tassello: quelli di Alcoa questo servizio non ce lo hanno reso gratis. La riduzione dell’alluminio mangia molta elettricità, ed è quello il costo dell’operazione. Per ogni chilogrammo di metallo occorrono almeno 12 – 13 kWh di energia elettrica; la mezza chilata di carbonio per gli elettrodi ha un peso economico minore. Di solito la produzione di alluminio dalla bauxite si svolge vicino ad una fonte di elettricità a basso costo: idroelettrico, come nel caso islandese o russo. In alternativa si può usare carbone, si adatta anch’esso allo scopo: la Cina insegna.

In Italia non esistono fonti convenzionali di energia elettrica che costino poco. I combustibili vengono tutti dall’estero – anche il carbone – e li paghiamo cari. O costano molto, o costa molto trasportarli. In prima istanza a livello industriale nessuno vorrebbe mettere su una azienda simile in Italia: il contesto è inadatto. E allora Alcoa ha fatto funzionare gli impianti sardi in perdita, ma si è fatta girare dallo stato uno sconto sull’energia elettrica consumata. Puntuale come il mal di pancia, è ovviamente arrivata la procedura di infrazione Ue. La seconda in meno di vent’anni, e per la medesima fabbrica. Anche per un’altra a dire il vero, la fonderia esistente in Veneto e di cui poco si è parlato. Ma questa è un’altra storia.

Ora la vicenda si avvicina alla conclusione, e ce ne rendiamo conto leggendo le notizie di questi giorni. I forni vengono spenti, e si addensano nere nubi sulla possibilità di trovare un acquirente; le attività residue saranno giusto quelle di manutenzione, in vista di un futuro sempre più incerto. Per i costi di questa avventura industriale finita male consiglio la lettura del pezzo di Zuliani, o anche il testo proposto da Giacchè. Il primo segnala che “…le somme ricevute da Alcoa come rimborso dall’ente pubblico Cassa conguagli ammontano a circa 200 milioni di euro all’anno, tra il 2006 e il 2009…”; e il secondo afferma che “…alla Alumix erano state garantite per 10 anni tariffe agevolate da parte dell’Enel (che dal 2000 le scaricherà sulle bollette pagate dai cittadini). Era questa, infatti, una delle condizioni imposte dal compratore per concludere l’acquisto dell’azienda. Le stime parlano di agevolazioni per circa 2 miliardi di euro tra il 1996 e il 2005….”. La spesa per l’erario negli ultimi anni pare essere stata di 1,5 – 2 miliardi di euro, a seconda delle fonti: in anni recenti l’impennata più dannosa, probabilmente a seguito della crescita dei costi elettrici.

Già, i costi elettrici: la croce delle aziende che in Italia devono consumare di più. Esistono delle differenze abbastanza note nei costi applicati alle utenze industriali per quanto riguarda le forniture elettriche: per farsene un’idea consiglio la base dati Eurostat. Contiene serie storiche limitate nel tempo, ma lo strumento per generare grafici è molto comodo.

costo dell'energia elettrica per le industrie in EuropaCosto dell’energia elettrica per utenze industriali, €/kWh. Fonte: Eurostat.

La spesa indicata nel grafico, in euro per kWh e per un gruppetto di nazioni europee importanti, è definita come “…Average national price in Euro per kWh without taxes applicable for the first semester of each year for medium size industrial consumers….”. Consumatori di media taglia da 2000 MWh / anno: Alcoa è più grossa, ma immagino che le differenze tra nazioni tendano a conservarsi.

Gli andamenti sono assai evidenti: crescita dei costi ovunque, specialmente a casa di chi praticava grossi sconti. L’impatto più forte non è il passaggio da 85 – 90 a 110 – 130 €/MWh sperimentato dall’Italia: è semmai il balzo visto in Inghilterra, o in Polonia; almeno in termini relativi. Ad ogni modo costi assoluti così elevati sul mercato italiano non sono compatibili con industrie che pretendono di assorbire enormi quantità di corrente durante le ore di massima richiesta. Il balzo osservato negli ultimi anni deve essere stato decisivo riguardo le sorti della nostra metallurgia dell’alluminio.

Torniamo alla fabbrica: l’impianto di Portovesme ha una pagina di presentazione con qualche notizia. Nella pratica “….capacità produttiva di 150.000 ton/a di alluminio primario. E’ lo stabilimento con il maggiore consumo di energia elettrica in Italia (2.3 TWh/a)…”. Hanno un consumo elettrico leggermente più alto di quello atteso, più di 15 kWh per chilo di alluminio: può essere che sia comunque nella norma, dato che include tutte le funzioni dello stabilimento – e non solo l’azionamento delle celle.

Per capire cosa siano questi 2,3 TWh, può servire qualche paragone: peschiamo i dati dal bilancio energetico nazionale del nostro ministero. Nel 2010 il consumo interno lordo italiano viaggiava attorno ai 343 TWh, e di questi 126,3 erano destinati ad usi domestici e civili: del tipo azionare la lavatrice o i lampioni in strada. La Sardegna aveva una popolazione di 1.675.000 abitanti: ammettendo che i consumi fossero distribuiti in maniera uniforme – una forzatura ottimistica – i consumi civili dei sardi al 2010 potrebbero essere qualcosa del tipo 126,3 · (1,675 / 60,3) = 3,51 TWh. Un dato alternativo lo si può ricavare dal Piano Energetico Ambientale della regione, meno recente ma piuttosto attendibile: in questo caso i consumi elettrici del solo residenziale sembrano posizionarsi attorno ai 2 TWh per il 2003 – se non ho sbagliato a convertire dalle tep elettriche.

Come si voglia girare la questione, l’impianto di Portovesme sembra assorbire una quantità di elettricità che non è tanto distante dal consumo complessivo della regione destinato ad impieghi civili e residenziali. Questa è una cosa che nessuno ha gridato, ma che molti devono aver pensato. E molte persone probabilmente avranno storto il naso all’idea di dover destinare al mantenimento di alcune centinaia di posti di lavoro un fiume di energia che sarebbe forse capace di tenere in piedi tutte le abitazioni dell’isola.

Una possibilità alternativa per ragionare su questo impianto è quella di porlo a confronto con un qualche impianto analogo che si trova da qualche altra parte. Tra le varie possibilità ho scelto un paio di fabbriche in Inghilterra. Partiamo da Anglesey Aluminium, nel nord del Galles: si tratta di un impianto nato negli anni ’70 ed alimentato essenzialmente da una base load nucleare. Una scelta infrequente ma non del tutto isolata. Questa fabbrica – apparentemente il maggior consumatore inglese di elettricità – ha chiuso i battenti nel 2009: scaduti i contratti in essere per la fornitura elettrica non c’è stato rinnovo. Il costo corrente dell’energia nucleare evidentemente non è stato di grande aiuto, e questo nonostante il rapporto privilegiato esistente tra una centrale che non può che viaggiare sempre al massimo ed una fabbrica che viaggia anche di notte.

Un impianto differente per concezione è quello di Alcan Lynemouth, Inghilterra nord orientale. In questo caso la fabbrica di alluminio eseguiva la riduzione da bauxite servendosi della propria centrale termoelettrica. La centrale, piazzata all’interno dell’impianto, era alimentata con un buon carbone locale – quello della miniera di Ellington, assieme a materiale di diversa provenienza. Potenza di base a carbone piazzata alla bocca di miniera, centrale integrata con lo smelter dell’alluminio: meglio di così per i costi non si può proprio fare, e tra l’altro i forni per la riduzione erano tra i più evoluti del mondo. La chiusura della miniera locale nel 2005 ha fatto crescere la quota di carbone importato; la possibilità di eseguire il trasporto via mare c’è, anche se imperfetta. Questo gioiello di fabbrica, che probabilmente corrispondeva a molti dei desiderata di chi vuole gestire una industria energivora tenendo sotto controllo i costi elettrici, ha chiuso i battenti. Da maggio di quest’anno la produzione si è fermata.

Questi due esempi devono far riflettere tutti coloro i quali offrono soluzioni al problema della fabbrica sarda basate su un diverso modo di utilizzare qualche combustibile. I combustibili a buon mercato, ammesso che esistessero ancora, non hanno potuto alleviare le difficoltà degli inglesi; sorprendentemente l’uscita di scena di questi ed altri impianti non ha fornito sollievo alle fabbriche rimaste, probabilmente a causa della concorrenza cinese. Gli inglesi stanno cominciando a progettare dei parchi eolici da integrare alle centrali rimaste, in particolare attorno ai complessi siderurgici dismessi: hanno almeno una certa capacità di osservare i problemi.

Un’ultima considerazione: i prezzi di vendita dell’alluminio. Tra le fonti, consiglio questa e questa. Nell’ultimo anno siamo rimasti attorno ai 1500 – 1600 €/t. Una fabbrica come quella di Portovesme richiederebbe di consumare più di 15 MWh/t prodotta. Per pareggiare i costi elettrici con i ricavi di vendita, avrebbe bisogno di elettricità al prezzo di 1,55 [€/kg] / 15,3 [kWh/kg] = 0,1013 [€/kWh]. Naturalmente ignorando ogni altra spesa, come manodopera, trasporti ed ammortamento degli impianti. Esiste una qualche possibilità che in Europa non ci siano più nazioni adatte ad ospitare questa fabbrica; anche i francesi stanno facendo crescere i costi elettrici per le utenze industriali. In effetti nemmeno il mercato elettrico tedesco sembra adatto a questo comparto, con i suoi 0,09 €/kWh.

A Portovesme si chiude, e si chiude anche in tanti altri impianti. Le varie soluzioni a combustibili sperimentate in Europa non paiono più competitive per grandi consumatori elettrici. A chi mi dice che tutto questo è inevitabile, rispondo che probabilmente dobbiamo trovare il coraggio di pensare soluzioni davvero innovative per cavare l’ossigeno dalla bauxite. Non basta un pontile a cui far attraccare chiatte cariche di roba importata, così chiudiamo comunque; magari dopo qualcun altro, ma chiudiamo. Si accettano proposte.

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11 risposte a Alcoa: com’è andata

  1. ff0rt ha detto:

    Complimenti per la lucidità e la precisione. Una delle poche analisi che mi sia capitata attenta alla storia ed ai numeri, in un paese che troppo spesso tenta di aggirare i problemi con la letteratura ed il populismo. I numeri non sempre indicano soluzioni, ma almeno danno un quadro chiaro della situazione ed evitano di imbucarsi in vicoli ciechi.

  2. Mauro Poggi ha detto:

    Un aiuto per la comprensione oggettiva del problema. Ottimo.

  3. Pitocco ha detto:

    Complimenti per queste analisi.

  4. Filippo Zuliani ha detto:

    Bel post. Conosco bene il business dell’alluminio. Me ne sono occupato anni e conosco anche qualcuno proprio in Alcoa. L’alluminio costa tanto perche’, come perfettamente scritto su questo post, per purificarlo al 99.5% per cento via elettrolisi si impiega un pacco di energia. Il riciclo e’ possibile, e difatti nel Packaging gia’ si ricicla un sacco, ma non e’ sempre praticato. Nel settore Aerospace, per esempio, si ricicla ancora poco, principalmente per via della mancanza di una standardizzazione adeguata delle leghe aerospaziali e per la intrinseca maggiore complessita’ delle stesse. In pratica, manca la filiera e i metodi tecnici per un riciclo efficiente. Dal riciclo l’alluminio avrebbe tantissimo da guadagnare, per le bassa temperature di fusione e annealing. Questa, a mio avviso, e’ la strada per il futuro dell’alluminio. Ma e’ una strada europea e internazionale, che va percorsa nelle sedi opportune. Se il problema raggiunge Roma e’ gia’ tardi.

  5. Pingback: Alcoa chiude « Energia & Motori

  6. fausto ha detto:

    Vi ringrazio tutti quanti; e naturalmente vi consiglio di ricontrollare sempre i conti che faccio, dato che in passato ne ho sbagliati tanti!
    Ora avremmo bisogno di agire guidati dalla ragione, e non dai sentimenti. Molti salvataggi di aziende finiti male sono probabilmente il risultato di azioni mosse da buone intenzioni e da cattive analisi dei problemi. Credo che questo tema ci accompagnerà a lungo e in molte forme nel futuro prossimo. Una cosa che mi ha colpito tantissimo nelle polemiche attorno alla fabbrica in Sardegna è il totale silenzio sul contesto internazionale: ad ascoltare i nostri telegiornali sembra quasi che quella di Portovesme sia l’unica azienda del genere che chiude. E invece questo è un problema che pian piano affligge l’intera Europa: se questa cosa fosse stata sottolineata a dovere forse avremmo cercato di agire in modo diverso.

  7. gig ha detto:

    Bel post, ricco di numeri e di notizie, accende i riflettori su di una fabbrica che ha goduto di sovvenzioni statali, una pecora nera nell’economia nazionale? Proviamo ad elencare alcune industrie, settori , corporazioni e altro che godono di contributi statali :
    Acciaio, Agricoltura,Banche,Chimica,Trasporti,Fiat,giornali,sanità, forze dell’ordine, comuni, forze armate , Enel, scuole pubbliche di tutti i livelli, commercio, edilizia , etc…
    Lo stato entra in un modo o nell’altro a pieno titolo nel funzionamento delle imprese e dei settori industriali di una nazione , di tutte le nazioni!! Non facciamo gli ipocriti per favore, l’Italia stà svendendo tutto il suo patrimonio di industrie iniziando dall’alluminio che infatti era italiano e godeva di aiuti statali per l’approvvigionamento energetico esattamente come ne ha goduto quando l’abbiamo regalato all’Alcoa manco avessimo cento fabbriche di produzione di alluminio primario! Una ve ne era e una ne abbiamo ceduta insieme al mercato dell’alluminio italiano che non è certo l’ultimo per importanza.
    Quello che manca è una vera politica industriale che sappia tenere insieme industrie che hanno necessariamente bisogno di contributo pubblico per funzionare e altre che possono esistere e camminare anche da sole proprio perchè lo stato ha provveduto a crearne le condizioni, non credo che si possa far funzionare bene una nazione senza una visione d’assieme e senza una buona programmazione economica ed industriale, credo infine che in un paese industrializzato le industrie di base non si possano dismettere totalmente.

  8. mariam ha detto:

    ciao, ho scoperto solo oggi il tuo blog, molto interessante trattare i numeri e non solo le parole , a volte così ingannevoli
    Ripasserò:-)

  9. saurosecci ha detto:

    Davvero una ricognizone puntuale e precisa, di cui mi compliment, per una fabbrica simbolo di processo energivoro (a tal punto ches è mertata il Decreto “Salva ALCOA”, rimanendo in tema di tariffe energetiche), e sulla quale dovrebbero fare moltissime rifessioni i nostri decisori. Vedo anche un questo caso, seppurecn connotazioni un pò diverse, alcune similitudini di approccio con l’ILVA di Taranto

    • fausto ha detto:

      L’affaire Ilva differisce nelle proporzioni tra risorse: poca elettricità e tanto carbone. Le due fabbriche però hanno almeno un problema in comune: il mercato di vendita dei rispettivi prodotti, sempre più stretto.

  10. saurosecci ha detto:

    Reblogged this on L'ippocampo.

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