Pubblicato su I Mille.
Ormai siamo in inverno, e visto il clima inevitabilmente gli italiani come me e voi si devono preoccupare di come scaldarsi in casa. Per una nazione come la nostra questa vicenda è importante, specie nelle regioni del nord; e lo è sempre stata. Nel passato le opzioni disponibili non erano poi tante: in Italia usavamo principalmente legname e sottoprodotti delle lavorazioni agricole. Dalle mie parti – nella pianura emiliana – in mancanza di legname vero e proprio ci si serviva anche di cose come i cascami delle potature dei vigneti, o magari gli stocchi del granturco. In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia il nostro Istat si è preso la briga di pubblicare una revisione ragionata delle proprie serie storiche, di cui vi consiglio la lettura. Al proprio interno questo catalogo contiene anche notizie di un certo interesse circa le produzioni forestali italiane, ed in generale riguardo la conduzione delle superfici boscate nella nostra nazione. La sezione dedicata alle attività agricole ed alla conduzione dei boschi ci permette di realizzare qualche grafico: partiamo dalle superfici.
Superficie italiana, superfici forestali ed incidenza relativa. Fonte: Istat.
Nel diagramma in alto sono rappresentate le superfici – in kmq – dei boschi italiani assieme alla superficie complessiva italiana; la linea continua rappresenta l’incidenza percentuale della superficie forestale sul totale, ed è riferita all’asse di destra. A partire dal primissimo censimento del 1861, possiamo notare che l’Italia ha cambiato più volte la propria estensione seguendo le giravolte degli eventi bellici; anche le superfici boscate mostrano qualche cambiamento. Il primo problema da affrontare è la disomogeneità dei dati: le definizioni di bosco sono cambiate nel tempo, e questo ovviamente deve avere falsato gli andamenti rilevati in sede di censimento. Altra questione è la precisione nella misura delle superfici: la cartografia ottocentesca, seppure evoluta, ancora non riusciva a fornire stime impeccabili. Stante il contesto, è almeno possibile notare una tendenza alla diminuzione delle superfici boscate a partire dall’unificazione; successivamente si nota una ripresa nell’era fascista. Questa non è una anomalia, né un trucco contabile: la dirigenza fascista si era effettivamente posta il problema di tutelare le risorse forestali, lanciando estese campagne di rimboschimento; vedere al riguardo la voce Treccani.
La diminuzione nelle superfici osservata all’indomani dell’unificazione, per quanto affetta da ovvi problemi di affidabilità statistica, deve pur avere un qualche significato: è troppo evidente per poter essere liquidata come un mero errore contabile. Un indicatore che mi pare illuminante è l’estensione della rete ferroviaria: circa 2.773 km nel 1861, e ben 9.506 km nel 1881; nel 1901 aveva già raggiunto una dimensione analoga a quella odierna. Lo sviluppo della rete ferroviaria è un sintomo inequivocabile dell’ampliamento delle attività industriali italiane; qualche informazione la potete trovare ben sintetizzata dalla redazione del Corriere della Sera. L’economia italiana si espandeva, e nel farlo assorbiva grandi quantità di legname; sia come combustibile che come materiale costruttivo. Inevitabile che questo dovesse avere effetto sulla consistenza del patrimonio boschivo nazionale: le politiche di tutela attuate nel ventennio fascista rappresentavano probabilmente una prima presa di coscienza della dimensione del problema. Il fascismo comunque si trovava già ad ereditare un sistema forestale deteriorato, attaccato in maniera incisiva da una industrializzazione che aveva tentato di affermarsi in una realtà oggettivamente povera di materie prime.
Con il dopoguerra, come molti di voi già sapranno, si assiste ad un cambiamento importante: la disponibilità di combustibili importati permette agli italiani di fare tante cose – che vengono generalmente catalogate come “miracolo economico” – e tra queste c’è anche il progressivo abbandono di molte aree collinari e montane. I boschi cominciano a riprendersi, si espandono, si accrescono. Non c’è più stretta necessità di radere al suolo intere province per scaldarsi o per far funzionare un forno industriale: da questo punto di vista, il carbonio fossile importato negli ultimi sessant’anni è stato effettivamente un toccasana. Per avere una visione di maggior dettaglio di quanto accaduto, e sempre riferendoci al dato Istat, potremmo provare a verificare come si è evoluta la distribuzione delle varie tipologie di bosco. I dati disponibili in questo caso ci permettono di osservare il solo periodo post bellico.
Estensione delle superfici forestali italiane per tipologia, kmq. Fonte: Istat.
Il grafico in alto rappresenta gli andamenti delle superfici boscate, distinguendo per sommi capi alcune tipologie di fustaie e cedui. Ci sono alcune cose da dire al riguardo: gli andamenti mostrano degli scalini, dovuti in parte a cambiamenti nelle definizioni impiegate durante le rilevazioni statistiche. Per esempio la scelta di includere o meno certe tipologie di ceduo, o ancora l’incidenza minima delle piante richiesta per parlare di bosco. E’ comunque visibile un incremento delle superfici forestali italiane, il ben noto fenomeno seguito all’abbandono di parte dell’agricoltura e della zootecnia di ambiente montano; quando i nostri padri e nonni scendevano dalle montagne per andare a lavorare nelle fabbriche. Incremento che sembra avere interessato in maniera lieve un po tutte le tipologie di bosco censite, con l’eccezione delle fustaie a resinose che mostrano incrementi assai marcati.
In definitiva comunque le serie storiche disponibili sulle superfici sembrano mostrare un ridimensionamento di una certa importanza a partire dall’unificazione italiana, un tentativo organizzato di reazione al problema durante il fascismo ed una generalizzata ripresa causata dall’abbandono alla fine della Seconda Guerra. Il tutto con variazioni complessive nell’incidenza delle superfici boschive importanti ma non eccessive. Sarà tutto qui? Proviamo a vedere come si è evoluta la produzione di materiali legnosi negli ultimi decenni. Per farlo, si può utilizzare ancora una volta il dato fornito dalle serie storiche Istat.
Produzione di legname e carbone vegetale in Italia. Fonte: Istat.
Le produzioni raccontano una storia molto, molto diversa da quella raccontata dalle mere superfici. Per i legnami da lavoro, quasi tutta la serie disponibile attesta una produzione di 3 – 4 milioni di metri cubi annui; con un ridimensionamento recente di una certa entità. E’ sul lato dei combustibili che le cose cambiano: c’è stato uno spettacolare incremento nelle produzioni censite al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, nel 1939 – 40. Il tracollo del 1944 è forse solo apparente: probabilmente in una Italia divisa in due non era possibile censire bene le attività in corso. Ad ogni modo, con la fine della guerra questo trend troverà definitiva conferma. Tutta qui la realtà? Ovviamente no: il grafico riporta anche la produzione del carbone vegetale. Questo materiale è sempre stato molto ricercato per cucine, forge ed in generale laddove occorra un combustibile potente e pulito. Il suo principale difetto è la resa di conversione dal legname: con impianti moderni e personale preparato, a stento arriviamo ad un quarto del materiale di partenza. Probabilmente nell’Italia degli anni ’40, con attività tradizionali svolte direttamente nei boschi tramite cataste coperte di terreno, una resa del 20% era già accettabile. A conti fatti è probabile che il consumo di legname come combustibile, sia tal quale che convertito in carbone, negli anni ’40 dovesse avere raggiunto punte di più di 11 milioni di t annue; ben altra cosa rispetto alle 4 di oggi. Il tracollo in questa attività si distribuisce tra i primi anni ’40 e la fine degli anni ’50: dopo questo periodo, il comparto del carbone di legna può considerarsi virtualmente estinto in Italia. Resta una attività ridimensionata di utilizzo del legname come combustibile “tal quale”, abbastanza vivace ancora oggi ma certo distante dai fasti del periodo bellico.
La vicenda delle superfici boschive e delle produzioni di legname ora assume contorni differenti: molto probabilmente c’è stato un qualche problema di deforestazione in Italia almeno fino agli anni della Seconda Guerra. La misura delle superfici non sembra capace di identificare bene il fenomeno, ma le produzioni lasciano pochi dubbi. La forte richiesta di combustibile, già evidente all’inizio dell’era fascista, assume dimensioni parossistiche durante il conflitto a causa della difficoltà nel reperimento di combustibili fossili di importazione. L’arrivo degli idrocarburi e la riapertura delle vie commerciali alla fine della guerra permetteranno la ripresa delle superfici boschive che oggi consideriamo tanto positivamente.
Abbandoniamo ora grafici e tabelle e vediamo qualcosa di differente, e più immediatamente apprezzabile. Proviamo a dare una occhiata alle foto aeree riprese dal nostro IGM, ed in particolare a quelle degli anni ’50 – realizzate a conflitto appena concluso. Questo esercizio si può fare per molte aree, meglio ancora con le foto RAF; in mancanza di materiale migliore va bene l’anteprima web fornita dall’IGM. Se osserviamo, per dire, un’area dell’Appennino reggiano attorno al monte Ventasso, possiamo notare bene che molti versanti della zona sono coperti di campi e pascoli ben delimitati. La cosa si percepisce anche nell’immagine a bassa risoluzione. Si tratta di un fenomeno generalizzato, e ben noto a chi come il sottoscritto ha avuto modo di lavorare con le foto aeree del nostro Appennino. La stessa area oggi appare molto diversa: nei fotogrammi più recenti le coperture boschive sono estese ed abbastanza continue. Molti dei campi di un tempo sono ora in tutto o in parte ricoperti dalla vegetazione arborea. L’Italia che traspare dalle primitive coperture aerofotografiche è molto diversa da quella che conosciamo oggi, e l’azione dell’uomo appariva ben evidente nelle aree montane.
D’altro canto è probabile che le statistiche sulle superfici a bosco non dicano tutto quello che c’è da sapere: non descrivono per esempio la qualità degli ecosistemi forestali. In definitiva possiamo esporre un appezzamento di bosco ceduo a cicli di abbattimento ravvicinati, ma questo resterà comunque un bosco in termini di classificazione catastale. I boschi italiani sono andati incontro, nel recente passato, a problemi più ampi di quanto si possa credere ragionando solo in termini di mera estensione, che pure qualcosa dice.
Un pensiero per chiudere: ma è corretto guardare un bosco e vedere in esso solo una fonte di materiale da gettare nel fuoco? La risorsa è visibile, per carità, ma quel bosco non ci può rendere altro servizio? Una copertura vegetale estesa e solida impedisce all’acqua piovana di raggiungere troppo velocemente le aste dei corsi d’acqua. Anche questo è un servizio di grande interesse, e non possiamo pensare di non assegnargli alcun valore. Negli ultimi anni in Italia abbiamo cominciato a sperimentare un discreto incremento nella frequenza ed intensità dei fenomeni meteorologici estremi: dalle grandi alluvioni ai “flash flood” che tanti grattacapi causano ad alcune aree montane. Se tentiamo di far aumentare la pressione delle nostre attività sui boschi italiani, dovremo pensare anche a come gestire gli effetti collaterali negativi risultanti. In questo caso, i costi esterni restano in casa nostra: non saranno gli iracheni o i libici a pagare per noi, saremo proprio noi a dover fronteggiare il problema che abbiamo creato. Io sento spesso parlare di esternalità negative quando si discute, ad esempio, delle emissioni di anidride carbonica del carbone: ed è giusto; servirebbero però anche discussioni altrettanto accese sulle esternalità non proprio positive ottenute facendo scomparire un bosco.
Recentemente in Veneto abbiamo dovuto sperimentare una grave alluvione, con danni stimati di più di 400 milioni di euro. Ammettiamo per un momento di causare un incremento non voluto nella intensità di questi eventi – a causa di una diminuzione dei tempi di corrivazione – magari in maniera generalizzata e su buona parte del territorio nazionale: quante Vicenza dovremo vedere? E siamo sicuri del fatto che ci convenga scaldare una casa con il fuoco, con il rischio vederla distrutta? E quanta legna ci toccherà vendere per pagare i danni? Il gioco varrà la candela? Forse è giunto il momento di decidere se il territorio che abitiamo debba essere ritenuto una mera fonte di risorse materiali vendibili, o piuttosto anche la nostra vera, insostituibile casa.
Trovo interessante anche il raddoppio dela legna da ardere dal 1973 (data secondo me in cui c’è stata la presa d’atto che il petrolio non sarebbe stato mai più gratis) e 4 milioni di tonnellate sono in roba non trascurabile (per il riscaldamento civile penso che il consumo di energia primaria nazionale sia nell’ordine di 50Mtep, devo verifcare. 4 milioni di legna sono un 2Mtep, circa). Se non ricordo male non tanto tempo fa vidi un grafico dal quale si vedeva che l’importazione di legna dall’Austria era piuttosto importante.
Una considerazione da profano (ma amante della montagna per sport e turismo): vero, dovremmo vedere il territorio come casa nostra, anche quello che frena l’acqua che ci piove in pianura da sopra. Ma la mia impressione è proprio quella che le zone montane in cui c’è attenzione ai boschi siano rimaste quelle in cui il turismo ripaga l’attenzione. E non so se sia un granchè.
Noto ora una discrepanza grossa tra il dato Istat e quello del BEN 2010. Il bilancio energetico del ministero contabilizza ben 9,6 Mt di legna prodotta. Forse la cosa dipende dal fatto di avere stimato anche quantitativi di combustibile smerciati in nero (fenomeno prevalente anche dalle mie parti); o magari il dato Istat non considera le produzioni esterne ai boschi gestiti dal Corpo Forestale. Le importazioni sarebbero attorno ad una metà di questa cifra.
Posto che il settore residenziale divora circa 50 miliardi di mc di gas, per fare altrettanto dovremmo consumare annualmente più di 130 milioni di t di legna (stando ai fattori di conversione usati nel documento del ministero). Decisamente fori dagli schermi radar: non ci resta altro da fare che isolare bene i muri di casa, ma questo probabilmente i miei concittadini lo avevano già intuito da soli.
Si tratta d una analisi molto puntuale e devo dire, per me, molto interessate per i collegamenti storici, La riduzione della SAU (superficie agricola utilizzabile), che ha caratterizzato gli ultimi decenni, non entrando nelle motivazioni che l’hanno determinata, ha permesso al bosco di riappropriarsi, si molte d queste superifici. Vista la fondamentale importanza di questo ecosistema (sicuramente una della massime espressioni), e la sua vista importanza negli equilibri planetari, esistoni davvero oggi, tutti i presupposti, tramite le agrienergie, per un pieno rilancio delle attività agroforestali di manutenzione, vse le iinumerevoli ed ampiamentescalabili soluzioni tecnologied valorzzazione energetica attraverso il mondo delleagrienergie. Tutto qesto per ridare al bosc quel grandissimo ruolo che ha, non foss’latroche per la prevenzione dei disseti idrogeologi e riportare l’uomo apotersi sostetare proprio laddoveaveva trovato la soprvvivenza nei periodi più critici come quelli bellici. Belo coe riferimento, quello della castagna, autentico mezzo di sopravvivenza d alimento integralein quei perodi sopratutto nel Centtro Italia. Come sempre sono i decisori poltici che hanno la palla, fin ad oggi ma gestita perl’assoluta assezadi politiche energetico-ambientali di medio lungo periodo comesi richiederebbe, e se non si attuano queste azioni in momenti d crisi come questi, allora quando?
Non sono propriamente d’accordo: le agrienergie che fanno testo sono tutte di pianura, appropriandosi di terreni che per ragioni di mercato e di incremento di produttività gli agricoltori avevano dismesso.
Me ne sono dovuto convincere cercando di capire le ragioni per cui anche l’utilizzo a fini energetici delle potature di vite e olivo nella mia terra (la Toscana) non è mai decollato nonostante analisi e studi specifici ne decretassero la sostenibilità economica, nonostante le quotazioni delle potature seguissero la sua logica di “scarto” e nonostante un supporto delle amministrazioni locali (un po’ generico – ammetto – soprattutto volto a “fare sistema”): la logistica difficile dei terreni collinari e il conseguente impiego massiccio di manodopera (oltre al frazionamento eccessivo delle proprietà che rende più difficili le economie di scala) tiene i costi troppo alti per competere.
Figuriamoci la logistica delle aree montane. L’unico esempio in controtendenza è il pellet ma solo in quanto sottoprodotto delle segherie.
Personalmente ho testimoniato più volte su queste pagine il peso di questi problemi. Nei campi dell’Emilia (comoda pianura a due passi dalle città) insistiamo a bruciare nei campi non tanto le potature, quanto interi frutteti e vigneti. Falò da centinaia di t di materiale qualitativamente eccellente per pezzatura ed umidità: tutto buttato via a due passi da paesini pieni di persone che si lamentano della bolletta troppo alta.
Il problema è il tempo: la carenza di combustibili non è durata ancora tanto a lungo da convincerci ad abbandonare alcune abitudini. Esistono disoccupati che ricevono sussidi in metano dalle amministrazioni locali, anche nel mio paese. Prima o poi questi signori impugneranno il luccio. Il problema alla fine saranno gli effetti collaterali!
> Non sono propriamente d’accordo: le agrienergie che fanno testo sono tutte di pianura
> appropriandosi di terreni che per ragioni di mercato e di incremento di produttività gli agricoltori avevano dismesso.
Di recente col gas sono andato a visitare l’azienda agricola Cerutti
un gioiellino agrobio nel ferrarese che ci rifornisce di riso e altri prodotti.
Stefano si lamentava che i suoi progetti di piccoli miglioramenti aziendali (come una rotazione un po’ più frequente) sono ostacolati dal fatto che non riesce a trovare campi a prezzi d’affitto accessibili per un agricoltore.
Purtroppo lì vicino è arrivata quella jattura di business in grande (che sebbene sia verniciato di verdognolo di ecologico non ha nulla) , la più grande jattura in Italia di centrale a “biomassa”, che coll’energy business si può permettere prezzi di affitto per campi coltivati a (bio)masse che stroncano il mercato ed escludono gli agricoltori.
L’agricoltura, dopo anni di sevizie subite dalla devastazione speculativa edilizia, si trova a dover fronteggiare la speculazione energetica verdognola.
L’energia da biomasse (se non in forma piccolissima con ciclo chiuso di ceneri che ritornano in letamaia o in campo/bosco ovvero all’origine) non è altro che una nuova forma del BAU.
Simpatica testimonianza delle opere di rimboschimento nel ventennio fascista
Versante SO del Monte Giano ad Antrodoco RI
https://maps.google.it/maps?q=monte+giano&hl=it&ll=42.417944,13.106174&spn=0.054683,0.12557&sll=42.422538,13.096218&sspn=0.02734,0.062785&t=h&hnear=Monte+Giano&z=14
Ho visto adesso: fantastica la scritta disegnata con l’alberatura….