L’immagine qui sopra ritrae una scatola di taglio, smontata, al termine di una prova. Parliamo di una prova di taglio diretto eseguita in laboratorio, volta a dedurre la resistenza meccanica di un provino d terreno. Quelle cose che si fanno quando si studiano le deformazioni di una frana, o di un grosso rilevato in terra. Ad essere onesti, il provino della foto ha avuto poca fortuna: è colato fuori lungo la superficie che separa le due metà della scatola di taglio. Per carità, con i tagli diretti è fisiologico: purché non si esageri. In questo caso è andata piuttosto male.
In condizioni normali, una prova di taglio su terre più o meno coesive funziona così: si preleva il campione, lo si piazza in una sagoma che lo ritagli alla forma richiesta, lo si fa scendere dentro al contenitore metallico – detto scatola di taglio – che provvederà a metterlo sotto sforzo e misurarne la resistenza meccanica. Si provvede quindi ad applicare carichi crescenti al provino, e si lascia che acqua ed aria presenti al suo interno fuoriescano attraverso due elementi porosi. Raggiunta la pressione di confinamento desiderata, e dissipate le sovra pressioni interstiziali, si comincia a tagliare: la macchina deforma il provino a velocità ritenute ragionevoli e vengono misurate le forze in gioco. Con un minimo sindacale di tre provini è possibile cominciare a costruire una regressione che lega il carico normale applicato alla forza richiesta per avere la rottura. Tutto qui.
La seconda immagine in alto rappresenta tre provini di terreno sottoposti a taglio: sono costituiti da due metà cilindriche visibilmente fuori asse. Da sinistra, il provino tal quale all’uscita dalla macchina; quindi il secondo provino, cinto di due fogli di carta da filtro. Infine un terzo provino incluso negli elementi che costituiscono un montaggio completo per una prova reale: dal basso, disco di sostegno in acciaio, disco di appoggio in lega forato, pietra porosa, carta da filtro, terreno del provino, carta da filtro, pietra porosa, coperchio di applicazione del carico. Se ti dimentichi qualcosa o se inverti qualche componente, e sei fortunato, ripeti la prova; se sei sfortunato danneggi l’attrezzatura. Si noti che l’appoggio della faccia piana del provino è sempre drenato dall’accoppiata carta da filtro / pietra porosa, che garantisce la dissipazione delle pressioni interstiziali in eccesso. In assenza di carta da filtro, vi troverete ad intasare le pietre porose con residui di terra. Ad ogni modo non è difficile preparare una prova: basta capire bene in che ordine mettere i vari componenti.
La terza immagine qui sopra mostra cosa mi è capitato tra le mani qualche giorno fa, mentre facevo le pulizie in mezzo ai vecchi campioni. Sono tre provini tagliati molti anni fa – presumo più di 10 – da qualcuno che mi ha preceduto dove lavoro. Probabilmente si trattava di uno studente in procinto di laurearsi. Abbandonati nei tre provini giacciono quindi da un decennio due o tre dischi forati in lega leggera, di quelli che si usano sul fondo del montaggio appena descritto. La cosa curiosa è come siano stati utilizzati: l’operatore li ha messi tra la carta da filtro ed il provino. Ottenendo l’effetto di abbassare artificiosamente la trasmissività idraulica del materiale, peraltro in maniera non precisamente calcolabile. Se l’intento era quello di tenere fermo il provino, mi permetto di ricordare che quest’ultimo non può in alcun modo sfuggire al confinamento impostogli dalla scatola di taglio metallica in cui si trova. Dopo avere eseguito questa manovra, lo sconosciuto operatore ha estratto i provini e li ha accantonati dimenticando al loro interno anche i dischi forati. Che lì riposano da un decennio, dimenticati, in un laboratorio nel quale in effetti scarseggiavano almeno fino a questo fortuito ritrovamento.
La responsabilità di questo fallimento è facile da attribuire: è di quelli come me. In teoria, quando uno studente arriva in laboratorio dovremmo verificare che sappia cosa sta facendo. Non è detto che un corso teorico, con qualche puntata occasionale nei laboratori, riesca a far capire agli allievi le cose essenziali che stanno dietro a certe analisi. Anche con tutta la buona volontà di questo mondo, avranno solo una idea approssimativa di quello che dovrebbero fare. Non c’è modo di sapere a priori se la persona che abbiamo davanti capisca qualcosa di una prova edometrica, o di una calcimetria: il momento della verità è la pratica. La si mette davanti a bilance analitiche, celle edometriche, lappatrici, ma anche trapani e morse, e si vede come si comporta. Non si può dare per scontato praticamente nulla, e comunque ne vale la pena: solo la pratica permette di interfacciarsi con il dato sperimentale, vero fondamento del pensiero scientifico moderno. Se ti limiti alla teoria, allora non stai gestendo una istituzione universitaria: stai gestendo un liceo di provincia. La verità è che nell’ambito delle scienze applicate occorre sviluppare doti tipiche degli artigiani; in alternativa, meglio dedicarsi all’ippica. Starò bene attento in futuro, ripensando a quei tre provini nascosti in un armadio. Non vorrei mai che un altro studente uscisse da qui pensando che quell’arnese si usa in quel modo: sarebbe per me una colpa mortale.
La saggezza è proprio quella di sapere, di non igniorare che l’albero ha anche radici, oltre la chioma. Le radici prassi sono in basso, si protendono meno in alto ma sono importanti come il fusto e la chioma.
Certo che in un paese in cui c’è un sottile (a volte non così sottile) disprezzo per ciò che è pratico e manuale, alcune conclusioni come le tue sono rare, importanti ed… ecologiche!